RILEGGIAMO IL CONCILIO DI TRENTO - 18/DECRETO DI RIFORMA

Proemio.

Poiché è ufficio proprio dei vescovi riprendere i difetti di tutti i sudditi (295), essi devono guardarsi soprattutto da questo: che, cioè, i chierici, specialmente quelli addetti alla cura delle anime, non commettano colpe e non conducano, con la loro connivenza, una vita disonesta.
Se, infatti, permettessero che essi abbiano dei costumi perversi e corrotti, come potrebbero poi riprendere i laici dei loro vizi (296), non essere da questi confutati con la semplice osservazione che permettono che i chierici siano peggiori di loro! E con quale coraggio i sacerdoti potrebbero riprendere i laici, quando questi potrebbero rispondere tacitamente che essi hanno commesso le stesse colpe che riprendono? (297).

Perciò i vescovi ammoniranno i loro chierici, di qualsiasi ordine siano, perché precedano il popolo loro affidato nel comportamento, nel modo di parlare, nella scienza, ricordandosi di quel detto: Siate santi, poiché io sono santo (298). E, conforme all’espressione dell’apostolo, a nessuno arrechino offesa, perché il loro ministero non venga disprezzato ed in tutto si mostrino servi di Dio (299), perché non si debba verificare, in essi, il detto del profeta: i sacerdoti di Dio contaminano le cose sante e disprezzano la legge (300).
E perché gli stessi vescovi possano, in ciò, agire più liberamente e non debbano essere impediti, con qualsiasi pretesto, lo stesso sacrosanto concilio ecumenico e generale Tridentino, sotto la presidenza dello stesso legato e nunzi della sede apostolica, ha creduto bene stabilire e fissare i seguenti canoni.


Canone I

Essendo cosa più onorifica e più sicura, per chi è soggetto servire in una mansione più modesta, prestando la dovuta obbedienza ai propri superiori, che tendere, con scandalo dei superiori alla dignità dei gradi superiori, a colui, cui per qualunque motivo, - anche per un delitto occulto -, in qualsiasi modo, anche senza una sentenza giudiziaria, dal proprio ordinario fosse stato proibito di salire ai sacri ordini, o che fosse stato sospeso dagli ordini o gradi o dalle dignità ecclesiastiche, a nulla gioverà la licenza di farsi ordinare, concessa contro la volontà dell’ordinario, o la restituzione ai primitivi ordini, gradi, dignità, onori.

Canone II

Alcuni vescovi di chiese che si trovano tra gli infedeli, mancando di clero e di popolo cristiano, essendo quasi randagi, non avendo una sede fissa e cercando non gli interessi di Gesù Cristo, ma le pecore degli altri, senza che il pastore lo sappia, si vedono proibito da questo santo sinodo di esercitare i loro poteri di vescovi in diocesi non loro, se non con espressa licenza dell’ordinario, e solo su persone soggette allo stesso ordinario. Costoro, beffandosi della legge e disprezzandola erigono una specie di cattedra episcopale in luogo di diocesi e credono di poter insignire del carattere clericale e perfino di promuovere agli ordini sacri del presbiterato, tutti quelli che vanno ad essi, anche se non hanno le lettere dimissoriali dei loro vescovi o dei loro superiori.
Ne viene di conseguenza che sono ordinati proprio i meno adatti, i rozzi, gli ignoranti e quelli che dal proprio vescovo sono stati rifiutati come inadatti e indegni, quelli cioè che non sanno compiere i sacri ministeri, né amministrare nel modo dovuto i sacramenti della chiesa.
Nessuno dei vescovi, che si dicono titolari, - anche se risiedono o si trovano ad essere in luoghi non soggetti ad alcuna diocesi, anche esenti o in qualche monastero di qualsiasi ordine -, senza il consenso espresso dell’ordinario o le lettere dimissorie, possa promuovere ad alcun ordine minore, alla prima tonsura il suddito di un altro, in forza di qualsiasi privilegio provvisoriamente concessogli di poter promuovere chiunque venisse a lui, neppure col pretesto che è suo familiare e commensale ordinario.
Chi facesse il contrario, sia sospeso per disposizione stessa del diritto, dall’esercizio delle sue funzioni pontificali per un anno, chi poi fosse stato in tal modo promosso, sia sospeso dall’esercizio degli ordini così ricevuti fino che sembrerà al proprio ordinario.

Canone III

Il vescovo può sospendere dall’esercizio degli ordini ricevuti per tutto il tempo che crederà e impedire che servano all’altare o in qualcuno dei loro ordini, quei suoi chierici, specialmente se costituiti negli ordini sacri, che fossero stati promossi senza suo precedente esame e senza sue lettere dimissorie da qualsiasi autorità, anche se fossero stati giudicati adatti da colui dal quale sono stati ordinati, ma che egli trovasse inadatti e incapaci a celebrare i divini uffici o ad amministrare i sacramenti della chiesa.

Canone IV


Tutti gli ordinari locali - che devono attendere con ogni diligenza a correggere le colpe dei loro sudditi, e da cui nessun chierico in forza delle disposizioni di questo santo sinodo deve credersi tanto al sicuro, sotto pretesto di qualsiasi privilegio, da non poter esser visitato, punito e corretto secondo le sanzioni canoniche - se risiedono nelle proprie chiese, hanno la facoltà di correggere e castigare, - anche fuori della visita -, qualsiasi chierico secolare, in qualsiasi modo esente, che altrimenti sarebbe soggetto alla loro giurisdizione, per le sue colpe, per i suoi crimini e delitti, ogni volta o quando lo crederanno necessario, come delegati, in ciò, della sede apostolica. Sotto questo rispetto, a nulla gioveranno agli stessi chierici e ai loro consanguinei, cappellani, familiari, procuratori e a chiunque altro, in vista e per riguardo agli stessi esenti, le esenzioni, le dichiarazioni, le consuetudini, le sentenze, i giuramenti, gli accordi, che obbligano soltanto quelli che li hanno stipulati.

Canone V

Inoltre, vi è chi sotto pretesto di ricevere ingiurie e molestie varie nei propri beni, cose, diritti, ottiene che gli venga assegnato con lettere conservatorie un giudice particolare che lo difenda e protegga da queste molestie ed ingiurie, lo mantenga e lasci nel possesso o quasi possesso dei suoi beni, cose, diritti, e non permetta che abbia noie, e trae quasi sempre tali lettere, contro l’intenzione di chi le ha concesse, ad un significato perverso.
Ora queste lettere conservatorie, qualsiasi clausola o decisione esse contengano, qualsiasi assegnazione di giudici esse abbiano, con qualsiasi altro pretesto o colore esse siano state concesse, non daranno diritto assolutamente a nessuno, di qualsiasi dignità e condizione egli sia, neppure se fosse un capitolo, di non poter essere accusato e condotto dinanzi al proprio vescovo o ad altro superiore ordinario nelle cause criminali e miste, o che non possa disporsi una inchiesta nei loro riguardi, e non si possa procedere (contro di loro), o, anche se pure dalla concessione gli competono dei diritti, non possa esser citato liberamente dinanzi al giudice ordinario proprio per questi diritti.
Anche nelle cause civili, se egli fosse l’attore, non gli sia permesso in nessun modo condurre qualcuno in giudizio, dinanzi ai suoi giudici conservatori.
Se poi avvenisse che nelle cause, in cui egli figura come reo, quegli che da lui è stato scelto come conservatore venisse giudicato sospetto dall’attore; o anche se fra gli stessi giudici, conservatore e ordinario, sorgesse qualche controversia sulla competenza della giurisdizione, non si proceda assolutamente nella trattazione della causa finché non si sia deciso sul sospetto o sulla competenza di giurisdizione con arbitri, eletti a norma di legge.
Ai familiari di colui che è solito difendersi con queste lettere conservatorie, inoltre, esse non diano alcun diritto; lo daranno a due soltanto, e solo nel caso che essi vivano a suo carico. Nessuno, inoltre, potrà godere del favore di simili lettere per oltre un quinquennio. Non sarà neppure lecito ai giudici conservatori erigere un proprio tribunale.
Nelle cause che riguardano i salari o persone poverissime rimanga in vigore il decreto di questo santo sinodo, emanato sull’argomento (301).
Le università generali, i collegi di dotti o di scolari, i luoghi regolari, gli ospedali che sono attualmente in esercizio; le persone di queste università e collegi, luoghi ed ospedali, non devono assolutamente essere comprese in questo canone, ma devono ritenersi ed essere realmente esenti.

Canone VI

Anche se l’abito non fa il monaco, è necessario tuttavia che i chierici portino sempre l’abito conforme al proprio stato, così che le vesti esteriori mostrino l’interiore onestà dei costumi.
 
D’altra parte oggi la temerità e il disprezzo della religione di alcuni è andata tanto oltre che, senza alcuna stima per il proprio onore e la propria dignità clericale, essi portano vesti da laici, anche pubblicamente, tenendo il piede in due staffe: sulle cose divine e sulle umane; perciò tutte le persone ecclesiastiche, per quanto esenti, che siano costituite negli ordini sacri o abbiano avuto dignità, personati, uffici o benefici ecclesiastici di qualsiasi natura, se, dopo essere stati ammoniti - anche con un semplice editto pubblico - dal loro vescovo, non porteranno un decente abito clericale, conforme alle esigenze del loro stato e della loro dignità e a quanto il vescovo ha ordinato e comandato, potranno e dovranno esser costretti a ciò con la sospensione dagli ordini, dall’ufficio e dal beneficio, da frutti, dai redditi e dai proventi degli stessi benefici. Se poi, corretti una volta, mancassero in ciò di nuovo, siano puniti anche con la privazione stessa di questi uffici e benefici. Il concilio inoltre rinnova ed amplia la costituzione di Clemente V, emanata nel concilio di Vienne, che comincia con la parola: Poiché... (302).

Canone VII


Chi ad arte e con insidie uccide il suo prossimo dev’essere allontanato dall’altare (303), chi volontariamente ha commesso un omicidio, anche se questo delitto non è stato provato attraverso un processo giudiziario e non è divenuto in nessun modo di pubblica ragione, ma è rimasto occulto, non potrà mai esser promosso ai sacri ordini e non potrà mai essergli assegnato alcun beneficio ecclesiastico, anche privo di cura d’anime. Sia escluso per sempre da qualsiasi ordine, beneficio, ufficio ecclesiastico.
Ma se si dovesse riconoscere che l’omicidio è stato commesso non di proposito, ma per caso, o nel respingere la forza con la forza per difendersi dalla morte, per cui secondo il diritto si dovrebbe in qualche modo dispensare e ammettere anche al ministero dei sacri ordini e dell’altare e a qualsiasi beneficio e dignità, la causa è rimessa all’ordinario del luogo, o, se vi è un giusto motivo, al metropolita o al vescovo più vicino. Questi non potrà dispensare se non dopo aver preso cognizione della causa e dopo che siano state trovate vere le istanze e le testimonianze, e non altrimenti.

Canone VIII

Alcuni - e tra questi anche dei veri pastori che hanno proprie pecore - cercano di comandare anche al gregge degli altri e qualche volta si prendono cura talmente dei sudditi altrui, da trascurare i propri. Pertanto chiunque, anche se rivestito della dignità vescovile, abbia il privilegio di punire i chierici degli altri, per quanto possano essere rei dei delitti più gravi, non dovrà in nessun modo procedere contro chierici a lui non soggetti, specie se costituiti in sacris, se non con l’intervento del vescovo degli stessi chierici, se risiede nella sua chiesa, o di persona da designarsi dallo stesso vescovo. In caso diverso, il processo e quanto possa seguire saranno nulli.

Canone IX

Molto saggiamente sono state distinte diocesi e parrocchie, e a ciascun gregge sono stati assegnati propri pastori e propri rettori delle chiese inferiori, i quali abbiano cura ciascuno delle proprie pecore. Perché l’ordine ecclesiastico non sia turbato e una stessa chiesa non appartenga, in qualche modo, a due diocesi, non senza grave incomodo dei suoi sudditi, i benefici di una diocesi, anche se si trattasse di chiese parrocchiali, vicarie perpetue, o semplici benefici, o prestimoni, o porzioni prestimoniali, non vengano uniti per sempre ad un beneficio, o ad un monastero, o collegio, o anche ad un luogo pio di altra diocesi, neppure allo scopo di accrescere il culto divino, o il numero dei beneficiati, o per qualsiasi altro motivo. Con ciò questo santo sinodo interpreta il proprio decreto su queste unioni (304).

Canone X


I benefici abitualmente assegnati in titolo ai religiosi professi, quando, per la morte, per la rinunzia o per altro motivo di chi li ha in titolo, si rendessero vacanti, siano conferiti solo a religiosi di quell’ordine o a chi sarà assolutamente tenuto a prendere l’abito ed emettere la professione religiosa e non ad altri (perché non indossino un abito intessuto insieme di lino e di lana (305)).

Canone XI


I religiosi che passano da un ordine ad un altro ottengono facilmente dal loro superiore il permesso di vivere fuori del monastero. Con ciò si dà occasione di vagare qua e là e di venir meno alla professione religiosa.
Nessun prelato, quindi, o superiore di ordine religioso qualsiasi facoltà egli abbia, può ammettere qualcuno all’abito e alla professione, se non a condizione che rimanga per sempre in convento, nello stesso ordine, al quale viene trasferito, nell’obbedienza al suo superiore. Chi è stato così trasferito sia del tutto incapace di benefici secolari, anche con cura d’anime, anche se fosse stato dei canonici regolari.

Canone XII


Nessuno, di qualsiasi dignità ecclesiastica o secolare possa essere, fuori del caso di chi avesse fondato e costruito ex novo una chiesa, un beneficio o una cappella, o di chi avesse dotato competentemente coi propri beni patrimoniali una chiesa (cappella ecc.) già eretta, ma priva della dote sufficiente, può o deve chiedere ed ottenere in nessuna maniera il diritto di patronato.
Nel caso di fondazione o di dotazione, l’istituzione sia riservata al vescovo e non ad altri a lui inferiore.

Canone XIII


Inoltre non sia lecito al patrono, col pretesto di qualsiasi privilegio, presentare, in nessun modo, qualcuno per i benefici del suo diritto di patronato, se non al vescovo ordinario del luogo, a cui spetterebbe la provvista e l’istituzione dello stesso beneficio, se non vi fosse il privilegio.
Diversamente, la presentazione e l’investitura che ne fosse seguita, siano e vengano considerate nulle.
Il santo sinodo dichiara, inoltre, che nella futura sessione, già fissata per il 25 gennaio del prossimo anno 1552, col sacrificio della messa si debba trattare e discutere del sacramento dell’ordine e proseguire la materia della riforma.

SESSIONE XV
(25 gennaio 1552)
Decreto di proroga della pubblicazione dei canoni.omissis 
SESSIONE XVI (21 aprile 1552)
Decreto di sospensione del concilio
omissis

SESSIONE XVII (18 gennaio 1562)
Decreto sulla celebrazione del concilio
omissis

SESSIONE XVIII
(26 febbraio 1562) 
Decreto sulla scelta dei libri e sulla volontà di invitare tutti al concilio con salvacondotto
omissis

SESSIONE XIX
(14 maggio 1562)
Si rimanda la pubblicazione dei decretiomissis


SESSIONE XX
(5 giugno 1562)
Si proroga la pubblicazione dei decreti alla futura sessione, che viene indetta

omissis

 
Note

295. Cfr. Concilio Lateranense IV, c. 7 (v. sopra).
296. Cfr. 
I Cor 9, 27.
297. Cfr. GEROLAMO, 
Comm. in ep. ad Titum, 1, 6 (Pl 26, 598).
298. 
Lv 11, 44; 19, 2.
299. 
II Cor 6, 3-4.
300. Cfr. 
Ez 22, 26; Sof 3, 4.
301. Cfr. Sessione VII, c. 14 de ref. (v. sopra).
302. Concilio di Vienne, c. 9 (COD, 365).
303. Cfr. 
Es 21, 14.
304. Sessione VII, c. 6 de ref. (v. sopra).
305. Cfr. 
Dt 22, 11.
 

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