RILEGGIAMO IL CONCILIO DI TRENTO - 6/DECRETO SULLA GIUSTIFICAZIONE (TERZA PARTE)

Capitolo XI.
Dell’osservanza dei comandamenti e della sua necessità e possibilità.


Nessuno, poi, per quanto giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti, nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e proibita dai padri sotto pena di scomunica (100), esser cioè impossibile per l’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio, infatti, non comanda l’impossibile; ma quando comanda ti ammonisce di fare quello che puoi (101) e di chiedere quello che non puoi, ed aiuta perché tu possa: i suoi comandamenti non sono gravosi (102), il suo giogo è soave e il peso leggero (103).

Quelli infatti che sono figli di Dio, amano Cristo e quelli che lo amano (come dice lui stesso (104)) osservano le sue parole, cosa che con l’aiuto di Dio certamente possono fare. Quantunque infatti in questa vita mortale, per quanto santi e giusti, qualche volta essi cadono almeno in mancanze leggere e quotidiane, che si dicono anche veniali, non per questo cessano di essere giusti. Ed è propria dei giusti l’espressione, umile e verace: Rimetti a noi i nostri debiti (105).

Deriva da ciò, che gli stessi giusti debbano sentirsi tanto maggiormente obbligati a camminare per la via della giustizia, quanto più, liberi già dal peccato e fatti schiavi di Dio (106), vivendo con moderazione, giustizia e pietà (107), possono progredire per mezzo di Gesù Cristo, mediante il quale ebbero accesso a questa grazia (108). Dio infatti non abbandona con la sua grazia quelli che una volta ha giustificato, a meno che prima non sia abbandonato da essi (109).

Nessuno quindi deve cullarsi nella sola fede, credendo di essere stato costituito erede e di conseguire l’eredità per la sola fede, anche senza soffrire con Cristo per poi esser con lui glorificato (110). Cristo stesso, infatti, come dice l’apostolo, sebbene fosse Figlio, imparò, da ciò che sofferse, l’obbedienza; sicché reso perfetto, divenne principio di eterna salvezza per tutti quelli che gli obbediscono (111). Per questo lo stesso apostolo ammonisce quelli che sono stati giustificati, dicendo: Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Io dunque corro, ma non come chi è senza meta, faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato (112).

Ugualmente Pietro principe degli apostoli, dice: Adoperatevi sempre più per rendere sicura la vostra vocazione e la vostra elezione; poiché facendo questo voi mai peccherete (113).

Deriva da ciò, che sono in contrasto con la dottrina della vera religione quelli che dicono che il giusto pecca, almeno venialmente, in ogni opera buona (114); o (cosa ancora più insostenibile) che merita le pene eterne. E sono pure in contrasto quelli che sostengono che in tutte le opere buone i giusti peccano, se, eccitando in quelle la loro pigrizia ed esortando se stessi a correre nello stadio, insieme anzitutto con la gloria di Dio, essi guardano anche al premio eterno poiché sta scritto: Ho piegato il mio cuore ad osservare i tuoi precetti, per la ricompensa (115). E di Mosè l’apostolo (116) dice che tendeva alla ricompensa.

Capitolo XII.
Bisogna evitare la presunzione temeraria della predestinazione
.

Nessuno, inoltre, fino che vivrà in questa condizione mortale, deve presumere talmente del mistero segreto della divina predestinazione, da ritenere per certo di essere senz’altro nel numero dei predestinati (117), quasi fosse vero che chi è stato giustificato o non possa davvero più peccare, o se anche peccasse, debba ripromettersi un sicuro ravvedimento. Infatti non si possono conoscere quelli che Dio si è scelti se non per una speciale rivelazione.

Capitolo XIII.
Del dono della perseveranza.


Similmente, per quanto riguarda il dono della perseveranza, di cui sta scritto: Chi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo (118) (dono che non si può avere se non da chi ha tanta potenza da mantenere in piedi colui che già vi è (119), perché perseveri, e da riporvi colui che cade), nessuno si riprometta qualche cosa con assoluta certezza, quantunque tutti debbano nutrire e riporre fiducia fermissima nell’aiuto di Dio. Dio infatti se essi non vengono meno alla sua grazia, come ha cominciato un’opera buona, così la perfezionerà (120), suscitando il volere e l’operare (121).

Tuttavia quelli che credono di esser in piedi, guardino di non cadere (122), e lavorino per la propria salvezza con timore e tremore (123), nelle fatiche, nelle veglie, nelle elemosine, nelle preghiere e nelle offerte, nei digiuni e nella castità (124). Proprio perché sanno di essere rinati alla speranza della gloria (125), e non ancora alla gloria, devono temere per la battaglia che ancora rimane contro la carne, contro il mondo, contro il diavolo, nella quale non possono riuscire vincitori, se non si atterranno con la grazia di Dio, alle parole dell’apostolo: Noi siamo debitori, ma non verso la carne, da dovere vivere secondo la carne. Se vivete secondo la carne, morrete; se invece per mezzo dello Spirito fate morire le azioni del corpo, vivrete (126).

Capitolo XIV.
Di quelli che cadono e della loro riparazione.


Quelli poi che col peccato sono venuti meno alla grazia della giustificazione, potranno nuovamente essere giustificati, se procureranno, sotto l’ispirazione di Dio, di recuperare la grazia perduta attraverso il sacramento della penitenza, per merito del Cristo. Questo modo di essere giustificato consiste nella riparazione di colui che è caduto; quella riparazione che i santi padri chiamarono, con espressione adatta, la seconda tavola dopo il naufragio della grazia perduta (127). Infatti, per quelli che cadono in peccato dopo il battesimo, Gesù Cristo ha istituito il sacramento della penitenza, quando disse: Ricevete lo Spirito santo. A chi rimetterete i peccati saranno loro rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti (128).

Bisogna quindi, insegnare che la penitenza del cristiano dopo la caduta è di natura molto diversa da quella del battesimo e che essa comporta non solo la cessazione dai peccati e la loro detestazione, cioè un cuore contrito ed umiliato (129), ma anche la confessione sacramentale dei medesimi, almeno nel desiderio e da farsi a suo tempo e l’assoluzione del sacerdote; e così pure la soddisfazione col digiuno, con le elemosine, con le orazioni e con le altre pie pratiche della vita spirituale, non certo per la pena eterna, che è rimessa con la colpa mediante il sacramento o il desiderio del sacramento, ma per la pena temporale, che (come insegna la sacra scrittura) non sempre viene totalmente rimessa, come nel battesimo, a quelli che, ingrati verso la grazia di Dio, che hanno ricevuto, contristarono lo Spirito santo (130), ed osarono violare (131) il tempio del Signore.

Di questa penitenza sta scritto: Ricordati dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima (132). Ed inoltre: La tristezza che è secondo Dio, produce un pentimento salutare che non si rimpiange, perché conduce a salvezza (133). E di nuovo: Ravvedetevi (134); e: Fate degni frutti di penitenza (135).

Capitolo XV.
Con qualunque peccato mortale si perde la grazia, ma non la fede.


Contro le maligne insinuazioni di certi spiriti, i quali con parole dolci e seducenti ingannano i cuori dei semplici (136), bisogna affermare che non solo con l’infedeltà, per cui si perde la stessa fede, ma anche con qualsiasi altro peccato mortale, sebbene non si perda la fede, si perde però la grazia della giustificazione. Con ciò difendiamo l’insegnamento della legge divina, che esclude dal regno di Dio non soltanto gli infedeli, ma anche i fedeli impuri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maledici, rapaci e tutti gli altri che commettono peccati mortali, da cui con l’aiuto della grazia potrebbero astenersi (137) e a causa dei quali vengono separati dalla grazia del Cristo (138).

Capitolo XVI.
Del frutto della giustificazione, ossia del merito delle buone opere, e del modo ai questo merito.


Ora agli uomini giustificati in questo modo, sia che abbiano sempre conservato la grazia ricevuta, sia che, dopo averla perduta, l’abbiano recuperata si devono proporre le parole dell’apostolo: Abbondate in ogni opera buona, sapendo che il vostro lavoro nel Signore non è vano (139). Egli infatti non è ingiusto e non dimentica ciò che avete fatto, né l’amore che avete dimostrato per il suo nome (140). E: Non abbandonate dunque la vostra fiducia, alla quale è riservata una grande ricompensa (141).

Perciò a quelli che operano bene fino alla fine (142) e sperano in Dio deve proporsi la vita eterna, sia come grazia promessa misericordiosamente ai figli di Dio per i meriti del Cristo Gesù, sia come ricompensa da darsi fedelmente, per la promessa di Dio stesso, alle loro opere buone e ai loro meriti. Questa è infatti quella corona di giustizia che, dopo la sua lotta e la sua corsa, l’apostolo diceva essere stata messa da parte per lui e che gli sarebbe stata data dal giusto giudice, e non a lui solo, ma anche a tutti quelli che amano la sua venuta (143).

Poiché infatti lo stesso Gesù Cristo, come il capo nelle membra e la vite nei tralci (144), trasfonde continuamente la sua virtù in quelli che sono giustificati, virtù che sempre precede, accompagna e segue le loro opere buone, e senza la quale non potrebbero in alcun modo piacere a Dio ed esser meritorie, si deve credere che niente altro manchi agli stessi giustificati, perché si dica che essi, con le opere che hanno compiuto in Dio (145), hanno pienamente soddisfatto alla legge divina, per quanto possibile in questa vita, e che hanno veramente meritato di ottenere a suo tempo la vita eterna (se tuttavia moriranno in grazia (146)). Dice, infatti, il Cristo, nostro Salvatore: Chi berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno; ma l’acqua che gli darò, diventerà in lui sorgente di acqua zampillante per la vita eterna (147).

In tal modo né si esalta la nostra giustizia come se provenisse proprio da noi (148), né si pone in ombra o si rifiuta la giustizia di Dio (149). Infatti quella giustizia che si dice nostra, perché inerente a noi ci giustifica, è quella stessa di Dio, perché ci viene infusa da Dio per i meriti del Cristo.

Né si deve trascurare che, quantunque nelle sacre Scritture si dia tanta importanza alle opere buone, che perfino a chi ha dato a uno dei suoi piccoli un bicchiere d’acqua fresca Cristo promette che non resterà senza ricompensa (150), e l’apostolo testimoni: la nostra presente tribolazione momentanea e leggera ci procura un incommensurabile e eterno cumulo di gloria (151), mai un cristiano deve confidare o gloriarsi di se stesso e non nel Signore (152), il quale è talmente buono verso tutti gli uomini, da volere che diventino loro meriti, quelli che sono suoi doni (153).

E poiché tutti pecchiamo in molte maniere (154), ciascuno deve avere dinanzi agli occhi con la misericordia e la bontà anche la severità e il giudizio, né alcuno deve giudicare se stesso, anche se non fosse consapevole di nessuna colpa (155) poiché tutta la vita degli uomini deve essere esaminata e giudicata non secondo il giudizio umano, ma secondo quello di Dio, il quale illuminerà i segreti più occulti, e renderà manifesti i consigli dei cuori; e allora ciascuno avrà da Dio la sua lode (156); che, come sta scritto, renderà a ciascuno secondo le sue opere (157).

Dopo questa dottrina cattolica della giustificazione, - e nessuno potrà essere giustificato se non l’accetterà fedelmente e fermamente (158) -, è sembrato opportuno al santo sinodo aggiungere i seguenti canoni, perché ognuno sappia non solo quello che deve credere e seguire, ma anche quello che dovrà evitare e fuggire. 
 
 
Note 

100. Cfr. tra gli altri il Conc. Arausicano II (529) dopo il c. 25 (Msi 8, 717).
101. Cfr. AGOSTINO, 
De natura et gratia, 43 (50) (CSEL 60, 270).
l02. Cfr. 
I Gv 5, 3.
103. Cfr. 
Mt 11, 30.
104. Cfr. 
Gv 14, 23.
105. 
Mt 6, I2.
106. 
Rm 6, 22.
107. 
Tt 2, 12.
108. Cfr. 
Rm 5, 2.
109. Cfr. AGOSTINO, 
De natura et gratia, 26 (29) (CSEL 60, 254) e anche altre volte in altre opere di Agostino.
110. Cfr. 
Rm 8, 17.
111. Eb 5, 8 e 9.
112. 
I Cor 9, 24, 26-27.
113. 
II Pt 1, 10.
114. Cfr. Bolla 
Exurge Domine, art. 31 segg. (Dn 77I segg.).
115. 
Sal 118, 112.
116. Cfr. 
Eb 11, 26.
117. Cfr. AGOSTINO, 
De corrept. et gr., 15 (46) (PL 44, 944).
118. 
Mt 10, 22; 24, 13.
119. Cfr. 
Rm 14, 4.
120. Cfr. 
Fil 1, 6.
121. Cfr. 
Fil 2, 13.
122. Cfr. 
I Cor 10, 12.
123. Cfr. 
Fil 2, 12.
124. Cfr. 
II Cor 6, 5-6.
125. Cfr. 
I Pt 1, 3.
126. 
Rm 8, 12-13.
127. GEROLAMO. 
Ep 84, 6 e Ep 130, 9 (CSEL, 55, 128; 56, 189); TERTULLIANO, De Poenitentia, c. 7 segg. (PL 1, 1241 segg.).
128. 
Gv 20, 22-23; cfr. Mt 16, 19.
129. 
Sal 50, 19.
130. Cfr. 
Ef 4, 30.
131. Cfr. 
I Cor 3, 17.
132. 
Ap 2, 5.
133. 
II Cor 7, 10.
134. 
Mt 3, 2; 4, 17.
135. 
Lc 3, 8; Mt 3, 8.
136. 
Rm 16, 18.
137. Cfr. 
II Cor 12, 9; Fil 4, 13.
138. Cfr. 
I Cor 6. 9-10; I Tm 1, 9-10.
139. 
I Cor 15, 58.
140. 
Eb 6, 10.
141. 
Eb 10, 35.
142. 
Mt 10, 22.
143. Cfr. 
II Tm 4, 7-8.
144. Cfr. 
Gv 15, 1 segg.
145. Cfr. 
Gv 3, 21.
146 Cfr. 
Ap 14, 13.
147. 
Gv 4, 13-14.
148. Cfr. 
II Cor 3, 5.
149. Cfr. 
Rm 10, 3.
150. Cfr. 
Mt 10, 42; Mc 9, 40.
151. 
II Cor 4, 17.
152. Cfr. 
I Cor 1, 31, II Cor 10, 17 (gr 9, 23-24).
153. Cfr. CELESTINO I. 
Ep. ad episcopos Galliae, c. 12 (PL 50, 536).
154. 
Gv 3, 2.
155. Cfr. 
I Cor 4, 3-4.
156. I Cor 4, 5.
157. 
Mt 16, 27; Rm 2, 6; Ap 22, 12.
158. Cfr. l'inizio del simbolo Atanasiano. 
 

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