RILEGGIAMO IL CONCILIO DI TRENTO - 24/DECRETO SUI RELIGIOSI E SULLE MONACHE E CONCLUSIONE

Lo stesso santo sinodo, proseguendo la riforma, ha creduto bene stabilire quanto segue.

Capitolo I


Il santo concilio non ignora quanto splendore e quanta utilità possa provenire alla chiesa di Dio dai monasteri piamente istituiti e rettamente governati. Perché, quindi, più facilmente e più prontamente venga ripristinata l’antica, regolare disciplina - dove è decaduta - e possa durare a lungo - dove si è mantenuta -, esso ha creduto opportuno comandare (come fa col presente decreto) che tutti i religiosi, sia uomini che donne, conformino e adattino la loro vita alle prescrizioni della regola che essi hanno professato.
In modo particolare osservino fedelmente quello che riguarda la perfezione della loro professione - come i voti e i precetti di obbedienza, povertà e castità, ed altri particolari precetti di qualche regola od ordine -, e, rispettivamente, quanto riguarda la conservazione della vita comune, del vitto, del vestito. I superiori pongano ogni cura e diligenza, sia nei capitoli generali e provinciali, che nelle loro visite, - che non trascureranno di fare a suo tempo - perché non si venga meno su questi punti, essendo chiaro che essi non possono usare larghezza in ciò che appartiene alla sostanza della vita religiosa. Se, infatti, non si osserveranno con esattezza quei punti che formano la base e il fondamento di tutta la vita religiosa, necessariamente dovrà cadere tutto l’edificio.

Capitolo II


A nessun religioso, quindi, sia uomo che donna, sia permesso possedere o tenere in nome proprio, o anche a nome del convento, beni immobili o mobili, di qualsiasi specie, anche se fossero stati acquistati da loro in qualsiasi modo; ma vengano subito consegnati al superiore ed incorporati al convento. Né sia lecito, in seguito, ai superiori concedere beni stabili ad alcun religioso, anche solo in usufrutto o in uso, in amministrazione o in commenda.
Quanto all’amministrazione dei beni dei monasteri o dei conventi, essa sia affidata solo agli officiali degli stessi monasteri, amovibili a volontà dei superiori. L’uso dei beni mobili sia regolato dai superiori in modo tale, che nell’insieme sia conforme allo stato di povertà che hanno professato; non vi sia niente di superfluo né niente di necessario venga negato. Se qualcuno, diversamente da quanto è stato prescritto, sarà trovato in possesso di qualche cosa sia privato per due anni della voce attiva e passiva, e venga anche punito secondo le costituzioni della sua regola e del suo ordine.

Capitolo III


Il santo concilio concede a tutti i monasteri, sia maschili che femminili, anche dei mendicanti (eccettuate le case dei frati Cappuccini di S. Francesco, e di quelli che si chiamano ‘minori dell’osservanza’), anche a quelli ai quali era proibito dalle loro costituzioni o non era stato concesso da un privilegio apostolico, che in seguito sia lecito ad essi possedere beni immobili. Se qualcuno dei luoghi predetti, a cui per autorità apostolica era stato concesso di possedere simili beni, ne fossero stati spogliati, il sinodo stabilisce che debbano essere loro restituiti. In questi monasteri e case, sia di uomini che di donne, possiedano o non possiedano beni immobili, vi sia solo quel numero (di religiosi), - ed in avvenire sia mantenuto - che possa essere facilmente sostentato con i redditi propri dei monasteri o con le consuete elemosine. In seguito luoghi simili non siano eretti senza preventiva licenza del vescovo nella cui diocesi devono essere costruiti.

Capitolo IV


Il santo sinodo proibisce che un religioso, senza licenza del suo superiore, col pretesto della predicazione, della lettura, o di qualsiasi opera pia, si metta a servizio di un prelato, di un principe, o di una università o comune, o di qualsiasi altra persona o luogo. Né in ciò saranno a suo favore privilegi e facoltà, che possa aver ottenuto da altri in questa materia. Se agisse diversamente sia punito, come disobbediente, a giudizio del superiore.
Non sia neanche permesso ai religiosi di allontanarsi dai loro conventi, neppure con la scusa di recarsi dai loro superiori, se non fossero stati da essi mandati o fatti chiamare. E chi non fosse trovato in possesso di tale mandato, ottenuto per iscritto, sia punito dagli ordinari locali come disertore del suo istituto.
Quelli, inoltre, che vengono mandati presso le università per ragione di studio, abitino solo nei conventi. Diversamente si proceda dagli ordinari contro di essi.

Capitolo V


Il santo sinodo, rinnovando la costituzione di Bonifacio VIII Periculoso (410), sotto minaccia del divino giudizio e dell’eterna maledizione, comanda a tutti i vescovi di fare assolutamente in modo che in tutti i monasteri la clausura delle monache, se fosse stata violata, sia diligentemente ripristinata; se invece fosse ancora intatta, venga conservata. Ciò potranno fare con potestà ordinaria, nei monasteri loro soggetti, negli altri per autorità della sede apostolica. Reprimano quelli che non obbediscono e contraddicono, con le censure ecclesiastiche e con altre pene, non tenendo in alcuna considerazione qualsiasi appello o ricorrendo anche, se necessario, per questo scopo, all’aiuto del braccio secolare: aiuto che il santo sinodo esorta i principi cristiani a prestare, e di cui fa obbligo, sotto pena di scomunica da incorrersi ipso facto, a tutte le autorità secolari.
Quanto alle monache, a nessuna sia lecito, dopo la professione, uscire dal monastero, anche per breve tempo, con qualsiasi pretesto, se non per un legittimo motivo che il vescovo dovrà approvare, non ostante qualsiasi indulto e privilegio.
Così pure non sia permesso a nessuno, di qualsiasi genere o condizione egli fosse, di qualsiasi sesso ed età, entrare nel recinto del monastero se non ha la licenza del vescovo o del superiore, ottenuta per iscritto, sotto pena di scomunica da incorrersi ipso facto. Il vescovo e il superiore da parte loro dovranno dare questa licenza solo nei casi necessari e non potrà darla nessun altro, anche in forza di qualsiasi facoltà o indulto, già concesso o che venisse concesso in seguito.
Poiché quei monasteri di monache, che si trovano fuori delle mura della città o del villaggio, sono esposti alla preda e ad altri pericoli da parte dei malfattori e spesso senza alcuna difesa, se i vescovi e gli altri superiori lo crederanno, facciano in modo che le monache siano trasferite da essi a quelli nuovi - o a quelli vecchi - che si trovano entro le città o villaggi più abitati; richiedendo anche, se fosse necessario, l’aiuto del braccio secolare. Quelli che lo impedissero o che non obbedissero, siano costretti con le censure ecclesiastiche.

Capitolo VI


Nella elezione di qualsiasi superiore, abate, officiale temporaneo e di altri, così pure dei generali, delle abbadesse e delle altre superiore, perché tutto sia fatto regolarmente e senza alcun inganno, il santo sinodo comanda severamente, prima di tutto, che tutte le autorità nominate debbano essere elette con voto segreto, in modo che i nomi dei singoli elettori non vengano mai resi noti. E non sia neppure lecito, in futuro, delegare provinciali o abati, priori o altri titolari qualsiasi a fare l’elezione, o a supplire le volontà e i voti degli assenti.
Se poi qualcuno fosse eletto contro la costituzione di questo decreto, l’elezione sia nulla e chi ha consentito ad essere eletto provinciale, abate o priore in seguito sia considerato inabile a qualsiasi carica, nel suo ordine; e le facoltà concesse in questo campo dovranno essere considerate senz’altro abrogate, e qualora in seguito ne fossero concesse altre, si ritengano come ottenute con frode.

Capitolo VII


Sia eletta un’abbadessa e una priora, (o con qualsiasi altro nome venga chiamata la superiora) di almeno quarant’anni e che abbia vissuto lodevolmente per otto anni dopo la professione religiosa. Se non vi fosse nessuna persona, nel monastero, con questi requisiti, si potrà scegliere da un altro monastero dello stesso ordine. Se anche questo sembrasse difficile al superiore che presiede all’elezione, ne venga scelta una dello stesso monastero, tra quelle che abbiano superato i trent’anni ed abbiano vissuto rettamente almeno per cinque anni dopo la professione; ciò, con l’approvazione del vescovo o di altro superiore.
Nessuna sia messa a capo di due monasteri; e se qualcuna ne avesse, in qualsiasi modo, due o più, sia costretta a lasciarli entro sei mesi, ritenendosene uno. Dopo tale periodo, se non avesse ancora rinunziato ad essi, per disposizione stessa del diritto siano considerati tutti vacanti.
Chi regola l’elezione, sia il vescovo o altro superiore, non entri nel monastero propriamente detto; ma ascolti o riceva i voti delle singole monache davanti alla grata. Quanto al resto, siano osservate le costituzioni dei singoli ordini o monasteri.

Capitolo VIII

Tutti quei monasteri che non dipendono dai capitoli generali o dai vescovi, e che non hanno i loro visitatori ordinari regolari, ma che sono governati sotto l’immediata protezione e direzione della sede apostolica, entro un anno dalla fine del presente concilio, - e poi ogni triennio, - siano obbligati a riunirsi in congregazioni, secondo le prescrizioni della costituzione di Innocenzo III nel concilio generale, che inizia: In singulis(411), ed ivi eleggere delle persone religiose, che trattino e prendano decisioni sul modo di erezione e sull’ordine di queste congregazioni e sulle regole da osservarsi in esse. Qualora fossero in ciò negligenti, il metropolita, nella cui provincia si trovano questi monasteri potrà convocarli, come delegato della sede apostolica, per queste questioni.
Se nei confini di una sola provincia il numero di tali monasteri non fosse sufficiente a costituire una congregazione, potranno formarne una i monasteri di due o tre province. Costituite queste congregazioni, i loro capitoli generali, i superiori e i visitatori da essi eletti, avranno sui monasteri della loro congregazione e sui religiosi che ne fanno parte la stessa autorità che gli altri superiori e visitatori hanno negli altri ordini. Siano tenuti, inoltre, a visitare con frequenza i monasteri della loro congregazione ed attendere alla loro riforma, e ad osservare le prescrizioni dei sacri canoni e di questo sacro concilio. Se poi, non ostante le pressioni del metropolita, essi non si dessero pensiero di eseguire le precedenti disposizioni, siano soggetti nelle diocesi in cui si trovano ai vescovi, come delegati della sede apostolica.

Capitolo IX


I monasteri delle monache immediatamente soggetti alla sede apostolica, anche sotto il nome di "capitoli di S. Pietro" o "di S. Giovanni" - o comunque si chiamino - siano governati dai vescovi, come delegati della stessa santa sede, non ostante qualsiasi cosa in contrario. Quelli, invece, che sono retti da persone scelte nei capitoli generali o da altri religiosi, rimangano in loro custodia e sotto la loro cura.

Capitolo X


Facciano bene attenzione i vescovi e gli altri superiori di monasteri di monache, che nelle loro costituzioni le monache siano esortate a confessare i loro peccati e a ricevere la sacrosanta eucarestia almeno una volta al mese, perché, premunite di questo salutare presidio, superino con energia tutti gli assalti del demonio.
Oltre al confessore ordinario, due o tre volte all’anno sia dato dal vescovo o dagli altri superiori un altro confessore straordinario, che deve ascoltare le confessioni di tutte.
Il concilio proibisce che il santissimo corpo di Cristo venga conservato nel loro coro o entro il monastero, e non, invece, nella chiesa pubblica, non ostante qualsiasi indulto o privilegio.

Capitolo XI

In quei monasteri ed in quelle case, maschili o femminili, cui è annessa la cura delle anime di persone secolari - oltre a quelle che appartengono alla famiglia di tali monasteri o enti - le persone, tanto religiose che secolari, che esercitano tale cura, in ciò che riguarda la predetta cura e l’amministrazione dei sacramenti, siano direttamente soggette alla giurisdizione, alla visita e alla correzione del vescovo, nella cui diocesi si trovano; nessuno sia addetto a questa cura, anche se amovibile a volontà, senza il suo consenso e senza aver prima subito l’esame del vescovo stesso o di un suo vicario.
Eccettuiamo il monastero di Cluny con i suoi territori ed anche quei monasteri o luoghi, in cui gli abati generali o altri superiori religiosi esercitano la giurisdizione vescovile e temporale sui parroci e sui parrocchiani, salvo tuttavia il diritto dei vescovi, che hanno su questi luoghi e persone una giurisdizione maggiore.

Capitolo XII


Non solo le censure e gli interdetti emanati dalla sede apostolica, ma anche quelli promulgati dagli ordinari, siano pubblicati dai religiosi a richiesta del vescovo, nelle loro chiese ed osservati. Così pure i giorni festivi, che lo stesso vescovo avesse comandato di osservare nella sua diocesi, siano osservati da tutti gli esenti, anche regolari.

Capitolo XIII


Quanto alle controversie sulla precedenza, che con grandissimo scandalo sorgono spessissimo tra gli ecclesiastici, sia secolari che regolari, in occasione di pubbliche processioni, nei funerali, nel portare il baldacchino e simili, il vescovo, senza alcuna possibilità di appello e senza badare ad altro, cerchi di comporle tutte. Tutti gli esenti, poi, tanto chierici secolari che regolari, anche monaci, chiamati alle pubbliche processioni, siano costretti ad andarvi, eccetto solo quelli che vivono sempre nella più stretta clausura.

Capitolo XIV


Ogni religioso non soggetto al vescovo, che vive dentro le mura del monastero, ma che fuori ha mancato talmente da essere di scandalo al popolo, ad istanza del vescovo ed entro un termine da lui stabilito, venga punito gravemente dal suo superiore, il quale comunichi al vescovo stesso l’avvenuta punizione. Se non lo punisse, sia privato del suo ufficio dal suo superiore e colui che ha mancato sarà punito dal vescovo.

Capitolo XV


In qualsiasi congregazione religiosa, sia maschile che femminile, la professione non sia emessa prima che si sia compiuto il sedicesimo anno di età. Chi non avesse fatto almeno un anno di probazione dal ricevimento dell’abito, non sia ammesso ad essa. La professione fatta prima sia nulla. Essa, quindi, non importerà alcun obbligo di osservare la regola di nessuna congregazione e di nessun ordine e di sottostare a qualsiasi altro effetto.

Capitolo XVI


Nessuna rinunzia fatta, nessuna obbligazione assunta, nei due mesi che precedono la professione anche con giuramento o in favore di qualsiasi causa pia, abbia valore, se non con licenza del vescovo o del suo vicario, e si sott’intenda sempre che non sortirà il suo effetto, se non quando sarà avvenuta la professione. Le rinunzie fatte diversamente, anche se con espressa rinunzia a questo favore e con giuramento, siano irrite e di nessun effetto. Finito il noviziato, i superiori ammettano alla professione i novizi che avranno trovato adatti, altrimenti li dimettano dal monastero.
Con questo provvedimento, tuttavia, il santo sinodo non intende innovare nulla per quanto riguarda l’ordine dei chierici della società di Gesù né proibire che esso possa servire il Signore e la sua chiesa secondo il suo pio metodo di vita, approvato dalla sede apostolica.
Eccetto il vitto e il vestito del novizio o della novizia per il periodo della prova, prima della professione non sia dato nulla dei loro beni al monastero, dai genitori o dai parenti, o dai loro procuratori, con qualsiasi pretesto, perché non avvenga che con questa scusa: che, cioè, il monastero possiede tutti o la maggior parte dei loro beni, non possano andarsene, e che difficilmente, se se ne andassero, potrebbero ricuperarli. Anzi, il santo concilio fa espresso obbligo a quelli che danno e a quelli che ricevono, sotto minaccia di scomunica, di non agire assolutamente in tal modo; e che sia restituito a chi se ne va prima della professione ciò che era suo.
Il vescovo obblighi ad osservare questa prescrizione anche con le censure ecclesiastiche, se sarà necessario.

Capitolo XVII

Il santo concilio, preoccupandosi della libertà della professione delle fanciulle che si dedicano a Dio, stabilisce e prescrive che se una fanciulla, che vuole indossare l’abito religioso, ha più di dodici anni, non possa riceverlo - né essa od altra possa poi emettere la professione - prima che il vescovo o il suo vicario (qualora egli fosse assente o impedito), o qualche altro incaricato da essi a loro spese, si sia reso conto con diligenza della volontà della fanciulla: se, cioè, essa fosse costretta, o ingannata, e se sappia quello che fa.
Se, quindi, si troverà che la sua volontà è pia e libera, e che ha i requisiti necessari secondo la regola di quel monastero e di quell’ordine e che il monastero è adatto, le sia permesso fare la professione. Perché il vescovo non ignori il tempo di tale professione, la superiora del monastero è tenuta ad informarlo un mese prima. Se essa mancasse di fare ciò, sia sospesa dal suo ufficio per tutto il tempo che sembrerà opportuno al vescovo.

Capitolo XVIII


Questo santo sinodo pronuncia l’anatema contro tutte e singole le persone di qualsiasi qualità o condizione, sia chierici che laici, secolari o regolari, qualsiasi dignità essi abbiano - che in qualsiasi maniera costringessero una fanciulla, una vedova, o altra donna qualsiasi, ad entrare in monastero o a indossare l’abito di qualsiasi ordine o ad emettere la professione religiosa contro la sua volontà fuorché nei casi permessi dal diritto; e così pure quelli che dessero il loro consiglio, prestassero il loro aiuto e il loro favore; e quelli che, pur sapendo che essa non entra in monastero, non riceve l’abito, non fa la professione di sua volontà, siano stati presenti a quest’atto, abbiano dato il loro consenso o abbiano interposto la loro autorità, in qualsiasi maniera.
A simile anatema sottopone quelli che senza giusto motivo impedissero in qualsiasi modo il santo proposito delle vergini o di altre donne di prendere l’abito o di emettere il voto.
Nei monasteri soggetti al vescovo, ma anche in qualsiasi altro monastero, si osservino tutte e singole quelle norme che bisogna osservare prima e durante la stessa professione.
Si eccettuano, tuttavia, tra queste, quelle donne che sono dette penitenti o convertite, per le quali si osservino le costituzioni loro proprie.

Capitolo XIX


Ogni religioso, il quale affermi di essere entrato in religione per forza e per timore o anche di aver fatto la professione prima dell’età prescritta, o qualche cosa di simile e voglia lasciare l’abito in qualsiasi modo; o che se ne voglia andare anche con l’abito, senza il permesso dei superiori, non sia preso in considerazione, se non entro il primo quinquennio dal giorno della sua professione ed esponga dinanzi al suo superiore e all’ordinario i propri motivi.
Se poi egli lasciasse spontaneamente l’abito prima, non gli sia permesso far valere alcun motivo, ma sia costretto a tornare in monastero, e sia punito come apostata; e nel frattempo non godrà di nessun privilegio del proprio ordine.
Nessun religioso, inoltre, qualsiasi facoltà possa avere, sia trasferito ad altro ordine religioso meno severo. E non si conceda ad alcun religioso di portare occultamente l’abito del suo ordine.

Capitolo XX


Gli abati, capi di ordini, e gli altri superiori di essi, non soggetti a vescovi, che hanno legittima giurisdizione su altri monasteri inferiori o su priorati, visitino ex officio, ciascuno nel suo territorio e a suo tempo e luogo, quegli stessi monasteri e priorati, anche se fossero stati dati in commenda. E poiché questi sono sottoposti ai capi dei loro ordini, il santo sinodo dichiara che essi non sono compresi in quelle norme che altra volta sono state emanate per i monasteri dati in commenda, e che quelli che sono a capo di tali ordini sono tenuti a ricevere i visitatori e ad eseguire le loro disposizioni.
I monasteri che sono i principali dell’ordine, siano visitati secondo le costituzioni della santa sede e di ciascun ordine. E finché dureranno tali commende, i priori claustrali o - nei priorati dei conventi che hanno dei sottopriori - quelli che sono addetti alle correzioni e alla direzione spirituale, siano eletti dai capitoli generali o dai visitatori degli stessi ordini.
In ogni altro campo i privilegi e le facoltà di questi ordini, riguardanti le loro persone, i loro luoghi, i loro diritti, rimangano fermi ed intatti.

Capitolo XXI


Poiché la maggior parte dei monasteri - anche abbazie, priorati e prepositure -, per la cattiva amministrazione di quelli cui erano stati affidati, hanno sofferto non lievi danni, sia nel campo spirituale che temporale, il santo sinodo desidera assolutamente ricondurli alla disciplina propria della vita monastica.
Ma la condizione dei tempi presenti è dura e difficile. E non si può apportare un rimedio comune a tutti, subito e in ogni luogo, come si desidererebbe.
Perché, tuttavia, non tralasci nessun provvedimento con cui si possa un giorno provvedere salutarmente ai mali predetti, primo: esso confida che il sommo pontefice romano nella sua pietà e prudenza farà del suo meglio, perché, secondo le esigenze dei nostri tempi, a quelli che ora sono affidati in commenda e che hanno propri conventi, vengano preposti religiosi dello stesso ordine, che abbiano fatto la loro professione e che possano dirigere e guidare il gregge. Quelli che si renderanno vacanti in avvenire, non siano conferiti se non a religiosi di sperimentata virtù e santità.
Quanto poi ai monasteri principali e più importanti degli ordini - nonché le abbazie e i priorati detti filiali di quelli chi presentemente li ha in commenda, - a meno che non sia stato loro provvisto con regolare successore - fra sei mesi dovrà professarne solennemente la regola o lasciarli. Diversamente, queste commende si considerino vacanti ipso iure.
E perché in tutte le singole prescrizioni precedenti non possa usarsi alcun inganno, il santo sinodo comanda che nella provvista di tali monasteri venga espressamente nominata la qualità di ciascuno, e che una provvista fatta diversamente sia considerata illegale e non abbia affatto in suo favore il susseguente possesso, anche triennale.

Capitolo XXII

Il santo sinodo comanda che le prescrizioni dei precedenti decreti e di ogni loro singola parte siano osservate in tutti i conventi e monasteri, nei collegi e nelle case di monaci e religiosi di qualsiasi specie, di qualsiasi tipo di monache, vergini e vedove, anche se esse vivano sotto il governo degli ordini militari, - anche di Gerusalemme -, con qualsiasi nome esse siano indicate, sotto qualsiasi regola e costituzione, e sotto qualsiasi tutela, amministrazione, soggezione, annessione, o dipendenza da qualsiasi ordine religioso, mendicante o non mendicante, di altri monaci regolari, o di canonici di qualsiasi tipo.
Tutto ciò, non ostante qualsiasi privilegio di tutti e singoli questi ordini, qualsiasi possa esser la forma dell’espressione usata; anche quelli contenuti nella costituzione detta Mare magnum; quelli ottenuti nella fondazione; non ostante le costituzioni e le regole, anche giurate; le consuetudini e le prescrizioni, anche immemorabili.
Se vi fossero dei religiosi, sia uomini che donne, che vivono sotto una regola più severa e norme più strette, il santo sinodo (eccettuata la facoltà di avere beni immobili in comune) non intende allontanarli dal loro metodo di vita e dalla loro osservanza.
E poiché il santo sinodo desidera che tutto quello che è stato sopra ricordato sia mandato ad effetto in ogni particolare, comanda a tutti i vescovi che, nei monasteri loro soggetti e in tutti gli altri loro affidati con i precedenti decreti e così pure a tutti gli abati e generali e agli altri superiori degli ordini accennati, che le prescrizioni suddette vengano eseguite immediatamente. Se qualcosa non sarà eseguita, i concili provinciali suppliscano e puniscano la negligenza dei vescovi. I capitoli provinciali e generali dei religiosi, e, in mancanza dei capitoli generali, i concili provinciali, provvedano con la designazione di alcuni dello stesso ordine.
Il santo sinodo, inoltre, esorta tutti i re, principi, repubbliche, autorità - e lo comanda loro in virtù di santa obbedienza - a voler prestare il loro aiuto e a interporre la loro autorità - quando ne fossero richiesti - a favore dei vescovi, degli abati, dei generali e degli altri superiori, nell’esecuzione della riforma sopra descritta. Così quanto è stato prescritto potrà esser felicemente eseguito, a lode di Dio onnipotente.

Decreto di riforma generale.


Capitolo I


Sarebbe desiderabile che chi riceve il ministero episcopale conosca i propri doveri e comprenda di essere stato chiamato non per cercare la propria utilità, né per procurarsi ricchezze o vivere nel lusso, ma a fatiche e preoccupazioni per la gloria di Dio. Non c’è dubbio che anche gli altri fedeli saranno più facilmente incitati alla religione e all’onestà, se vedranno i loro pastori preoccupati non delle cose del mondo, ma della salvezza delle anime e della patria celeste.
Il santo sinodo comprende che questi principi sono fondamentali per il rinnovamento della disciplina nella chiesa ed esorta tutti i vescovi perché, meditandoli spesso, anche con i fatti stessi e le azioni della vita, si mostrino conformi al loro ufficio: cosa che può considerarsi un continuo modo di predicare. E prima di tutto, diano un andamento tale a tutto il loro modo di vivere, che gli altri possano prendere da essi esempio di frugalità, di modestia, di continenza e di umiltà, che ci rende tanto graditi a Dio.
Sull’esempio, quindi, di quanto prescrissero i nostri padri al concilio di Cartagine (412), non solo comanda che i vescovi si contentino di una modesta suppellettile, di una sobria mensa e di un vitto frugale, ma che si guardino bene perché nel resto della loro vita e in tutta la loro casa non vi sia nulla di alieno da questo santo genere di vita, che non mostri zelo per Iddio e disprezzo per le vanità.
In modo particolare, poi, proibisce loro assolutamente di cercare di favorire esageratamente i loro parenti e familiari con i redditi della chiesa, poiché anche i canoni degli apostoli proibiscono loro di donare ai loro parenti i beni ecclesiastici che sono di Dio. Se poi fossero poveri, li diano loro come poveri, ma non li sottraggano e non li dissipino per essi. Anzi il santo sinodo li esorta vivamente, perché depongano del tutto questo affetto umano della carne verso i fratelli, i nipoti e i parenti, da cui nella chiesa hanno avuto origine tanti mali.
Le cose dette dei vescovi non solo devono valere - tenuto conto del grado di ciascuno - per tutti quelli che hanno benefici ecclesiastici, sia regolari che secolari, ma si stabilisce che debbano valere anche per i cardinali della santa chiesa romana, poiché sarebbe inconcepibile che quelli col consiglio dei quali il romano pontefice governa la chiesa universale, non debbano poi brillare per le virtù e per una vita castigata, che attiri a buon diritto gli sguardi di tutti.

Capitolo II


La tristezza dei tempi e la malizia delle eresie, che vanno sempre crescendo, costringe a non trascurare nulla per l’edificazione dei popoli e la difesa della fede cattolica. Il santo concilio, quindi, fa obbligo a tutti i patriarchi, primati, arcivescovi, vescovi e a tutti gli altri che per diritto o per consuetudine devono prender parte al concilio provinciale, che nel primo concilio provinciale, che dovrà tenersi dopo la fine del presente sinodo, accettino apertamente tutte e singole le definizioni e i decreti di questo santo concilio; che promettano e facciano professione di vera obbedienza al sommo pontefice romano. Dovranno anche respingere e anatematizzare pubblicamente tutte le eresie condannate dai sacri canoni e dai concili generali, specialmente da questo.
Lo stesso faranno, per l’avvenire, al primo sinodo provinciale cui parteciperanno, quelli che saranno promossi patriarchi, primati, arcivescovi e vescovi. Se qualcuno di questi (Dio non voglia!) si rifiutasse, i vescovi comprovinciali dovranno avvertirne subito il romano pontefice, sotto pena della divina indignazione. E intanto si astengano dalla sua comunione.
Tutti quelli, poi, che, sia al presente, sia in futuro, avranno dei benefici ecclesiastici, e quelli che devono prendere parte al sinodo diocesano faranno la stessa cosa nel primo sinodo. Se non lo facessero, siano puniti secondo le prescrizioni dei sacri cànoni.
Tutti quelli, inoltre, che hanno il dovere di curare le università e gli studi generali, di visitarli e di riformarli, facciano in modo che queste stesse università accettino integralmente i canoni e i decreti di questo santo sinodo, e che i maestri, i dottori e gli altri insegnino ed interpretino le verità della fede cattolica alla luce di essi, e si obblighino a seguire questo metodo all’inizio di ogni anno con un solenne giuramento. Inoltre, se vi fossero altre cose, nelle università, che avessero bisogno di riforma, quelli, cui spetta, le emendino per l’aumento della religione e della disciplina ecclesiastica.
Le università che sono direttamente sotto la protezione del pontefice romano e sono soggette alla sua visita, sua santità cercherà di farle visitare e riformare salutarmente da suoi delegati, nel modo descritto sopra e come a lui sembrerà utile.

Capitolo III


Quantunque la spada della scomunica sia il nerbo della disciplina ecclesiastica e sia molto utile a tenere a freno i popoli, tuttavia è da usarsi con molta parsimonia e cautela, perché l’esperienza insegna che, se essa viene adoperata senza la dovuta considerazione e per motivi non gravi, è piuttosto disprezzata che temuta, e porta piuttosto la rovina che la salvezza.
Quindi, le scomuniche che, premesse le ammonizioni, tendono a ottenere confessioni, o sono comminate per cose perdute o rubate, non siano assolutamente decise da altri che dal vescovo, e anche allora se non per cose di una certa importanza, e dopo che il caso sia stato diligentemente esaminato dal vescovo con matura riflessione, e faccia impressione sul suo animo. Né si lasci indurre a concederla dall’autorità di qualsiasi secolare, neppure dei pubblici poteri. Ma tutta la questione rimanga affidata al suo giudizio e alla sua coscienza, e lui solo ne giudichi, tenuto conto della cosa, del luogo, della persona, delle circostanze.
Si comanda a tutti i giudici ecclesiastici, di qualunque dignità, che, ogni qualvolta nelle cause giudiziarie essi potranno fare con autorità propria una esecuzione reale o personale, in qualsiasi momento del giudizio, si astengano dalle censure ecclesiastiche o dall’interdetto. Nelle cause civili, però, che in qualsiasi modo riguardano il Soro ecclesiastico, sarà lecito, se sembrerà loro opportuno, procedere contro chiunque, anche contro laici, e definire le cause con multe pecuniarie - che verranno assegnate ai luoghi pii ivi esistenti, non appena riscosse - col prendere pegni, con l’incarcerare persone, - cose che potranno fare per mezzo di esecutori propri o di altri -; o anche con la privazione dei benefici e con altri mezzi offerti dal diritto. Ma se l’esecuzione reale o personale contro i responsabili non potesse essere fatta in questo modo e si avesse contumacia verso il giudice, allora egli, oltre che con le altre pene, potrà colpirli anche con la scomunica, a suo arbitrio.
Anche nelle cause criminali, quando può aver luogo l’esecuzione reale e personale accennata sopra, si dovrà fare in modo da astenersi dalle censure. Ma se questa esecuzione non potesse avere luogo facilmente, sarà permesso al giudice servirsi di sanzioni spirituali contro i colpevoli, se, però, la qualità della colpa, - e non senza previa ammonizione, fatta almeno per due volte, anche con editto - lo richieda.
Sia poi assolutamente illecito a qualsiasi autorità secolare, proibire al giudice ecclesiastico di scomunicare qualcuno, o comandare di revocare la scomunica, col pretesto che non sono state osservate le norme del presente decreto. Queste, infatti, sono cose che riguardano gli ecclesiastici e non i secolari. Qualsiasi scomunicato, inoltre, se dopo le legittime ammonizioni non si ravvede, non solo non potrà essere ammesso ai sacramenti, alla comunione e alla familiarità con i fedeli, ma qualora, irretito nelle censure, con animo impenitente vivesse miseramente in esse per un anno, si potrà anche procedere contro di lui come sospetto di eresia.

Capitolo IV


Avviene spesso in alcune chiese che il numero delle messe da celebrarsi per i vari lasciti dei defunti sia tanto grande, da non potersi soddisfare ad esse nei singoli giorni voluti dai testatori o che l’elemosina da essi lasciata per celebrare sia tanto modesta, da non potersi trovare facilmente chi voglia sobbarcarsi a questo incarico. Per cui restano inadempiute le pie volontà dei testatori e si gravano le coscienze di coloro cui incombono questi doveri.
Il santo sinodo, desiderando che questi lasciti ad usi pii siano soddisfatti quanto più pienamente ed utilmente è possibile, dà facoltà ai vescovi, abati e generali di ordini, perché gli uni nel sinodo diocesano, gli altri nei loro capitoli generali, dopo aver diligentemente studiato la questione, possano stabilire secondo la loro coscienza, quello che a loro sembrerà giovare maggiormente all’onore e al culto di Dio e alla utilità delle chiese in modo, però, che sia fatta la commemorazione dei defunti che hanno lasciato legati pii per la salute delle loro anime.

Capitolo V


La logica richiede che a quelle cose che sono bene ordinate, non si rechi pregiudizio con disposizioni contrarie.
Quando, perciò, nella erezione o fondazione di benefici di qualsiasi natura, o in altre costituzioni si richiedono certe qualità, o sono annessi ad essi determinati oneri, nel conferimento di qualsiasi beneficio o in qualsiasi altra disposizione non si deve derogare a queste prescrizioni.
Le stesse norme si osservino per le prebende teologali, magistrali, dottorali, presbiterali, diaconali, suddiaconali, quando fossero state così costituite, di modo che in nulla si venga meno, in nessuna provvista, a ciò che riguarda le loro qualità o gli ordini. Ogni provvista fatta in deroga a queste norme, sia considerata illegittima.

Capitolo VI


Il santo sinodo stabilisce che in tutte le chiese cattedrali e collegiate venga osservato il decreto emanato sotto Paolo III, di felice memoria, che comincia con le parole: Capitula cathedralium (413). Ciò, non solo quando il vescovo le visita, ma anche quando ex officio o, dietro richiesta procede contro qualcuno, conforme a quanto è prescritto in questo stesso decreto. Quando tuttavia, procede fuori della visita, si osservino queste norme. E cioè:
Il capitolo, all’inizio di ogni anno, scelga due propri membri, secondo il cui consiglio e col cui consenso il vescovo - o il suo vicario - sia tenuto a procedere sia nell’istruire il processo, che negli altri atti fino alla conclusione della causa compresa, - tuttavia dinanzi al notaio dello stesso vescovo e nella sua casa, o nel consueto tribunale.
I due abbiano un solo voto ed uno abbia facoltà di aderire al vescovo. Se tutti e due in qualche atto (sia la sentenza interlocutoria, sia definitiva), discordassero dal vescovo, allora entro lo spazio di sei giorni, insieme col vescovo, eleggano un terzo membro; e se in questa elezione discordassero, l’elezione sia devoluta al vescovo più vicino. E così la questione, in cui v’era disaccordo, venga risolta secondo l’opinione di quella parte con cui il terzo si troverà d’accordo. In caso diverso, il processo e tutte le sue conseguenze siano nulli, e non abbiano alcun effetto giuridico.
Nelle questioni criminali di incontinenza, di cui nel decreto sui concubinari (414) e così pure nelle colpe più gravi che importassero la deposizione o la degradazione, quando si teme la fuga, perché non venga eluso il giudizio e quindi c’è bisogno della detenzione personale, il vescovo, all’inizio, potrà procedere da solo ad una sommaria informazione e alla necessaria detenzione, osservando, tuttavia, nel resto, l’ordine sopra descritto. In ogni caso, però, si abbia l’accortezza di custodire i colpevoli - naturalmente secondo la qualità della colpa e delle persone - in luogo decente.
Ai vescovi, inoltre si attribuisca l’onore dovuto alla loro dignità. Nel coro e nel capitolo, nelle processioni e nelle altre pubbliche manifestazioni, abbiano il primo posto, il luogo che essi stessi si scelgono e la maggiore autorità in ogni cosa. Se essi, inoltre, hanno qualcosa da proporre alla discussione dei canonici, e non si tratta di cosa che riguardi l’utilità propria o dei loro familiari, i vescovi stessi convochino il capitolo, chiedano i voti e concludano secondo questi. Assente il vescovo, ciò sia fatto senz’altro da quei membri del capitolo, cui spetta per diritto o per consuetudine, senza che venga ammesso il vicario del vescovo. Nelle altre cose, la giurisdizione e i poteri del capitolo - se ne avesse - e l’amministrazione dei beni sia assolutamente salva ed intatta.
Quelli che non hanno dignità e non appartengono al capitolo, nelle cause ecclesiastiche siano tutti soggetti al vescovo, non ostante i privilegi, che competessero anche secondo le tavole di fondazione, le consuetudini, anche immemorabili, le sentenze, i giuramenti, gli accordi, che obblighino solo i loro autori. Si eccettuano, tuttavia, tutti i privilegi concessi alle università degli studi generali, o ai loro membri.
Tutte queste norme, però, ed ogni singola loro disposizione non si applicheranno a quelle chiese, dove i vescovi o i loro vicari in forza delle costituzioni, di privilegi, di consuetudini, di accordi, o di qualunque altra norma avessero una potestà, un’autorità e una giurisdizione maggiore di quanto non sia stato stabilito col presente decreto. Né il santo sinodo intende derogare ai loro poteri.

Capitolo VII


Poiché nei benefici ecclesiastici tutto ciò che dà la sensazione di una successione ereditaria è odioso alle sacre costituzioni e contrario ai decreti dei padri, a nessuno, in futuro, sia concesso, anche col consenso degli interessati, l’accesso e il regresso a qualsiasi beneficio ecclesiastico. Quelli concessi finora non siano sospesi, estesi o trasferiti.
Questo decreto dovrà essere osservato per qualsiasi beneficio ecclesiastico, per le chiese cattedrali, e per qualsiasi persona, anche per quelle rivestite della dignità cardinalizia.
Anche per quanto riguarda le coadiutorie con futura successione sia osservata la stessa norma e non dovranno essere concesse a nessuno, di qualsiasi beneficio ecclesiastico si tratti. E se qualche volta la necessità urgente di una chiesa cattedrale o di un monastero o una evidente utilità richiederà che si dia al prelato un coadiutore, questi non sia concesso mai con futura successione, se prima il caso non è stato diligentemente considerato dal pontefice romano e non sia certo che in esso concorrono tutte le qualità, che secondo il diritto e i decreti di questo santo sinodo, si richiedono nei vescovi e nei prelati. In caso diverso, le concessioni fatte su questo punto siano considerate illegali.

Capitolo VIII


A quanti hanno benefici ecclesiastici, secolari o religiosi, il santo sinodo ricorda che si abituino ad esercitare con pronta benignità il dovere dell’ospitalità, così frequentemente comandato dai santi padri, per quanto, naturalmente, lo permetteranno i loro proventi; e ricordino che quelli che amano l’ospitalità, ricevono Cristo nei loro ospiti (415).
Quelli che hanno in commenda, in amministrazione o a qualsiasi altro titolo, quelli che nel comune linguaggio sono chiamati "ospedali", o altri luoghi pii, istituiti principalmente per l’utilità dei pellegrini, degli infermi, dei vecchi o dei poveri; o che li avessero perché uniti alle proprie chiese; o se le chiese parrocchiali fossero per caso unite agli ospedali, o erette in ospedali, e concesse in amministrazione ai loro patroni il santo sinodo comanda assolutamente che essi svolgano l’incarico ed esercitino l’ufficio loro imposto, e con i frutti a ciò destinati pratichino davvero quella ospitalità che devono praticare, secondo la costituzione del concilio di Vienne, già altra volta rinnovata in questo stesso sinodo sotto Paolo III, di felice memoria, e che inizia con le parole: Quia contingit (416).
Se questi ospedali sono stati istituiti per accogliere un determinato genere di pellegrini, di infermi o di altre persone, e nel luogo ove essi si trovano, non vi fossero tali persone o ve ne fossero pochissime, si comanda ancora che i loro redditi siano devoluti a altro uso pio, che sia simile il più possibile al loro scopo, e, considerato il luogo o il tempo, il più utile, come sembrerà meglio al vescovo e a due membri del capitolo, che per la loro esperienza siano tra i più capaci, scelti dal vescovo stesso; a meno che nella loro fondazione o costituzione non sia stato disposto diversamente, anche per questo caso. Allora il vescovo dovrà aver cura di fare eseguire quanto è stato ordinato, o, se non fosse possibile, provveda utilmente egli stesso secondo le direttive date sopra.
Se, quindi, tutti quelli, di cui abbiamo parlato, ed ognuno di essi, di qualsiasi ordine o istituto religioso e di qualsiasi dignità, anche se quelli che hanno l’amministrazione degli ospedali fossero laici - non soggetti, però, a religiosi, dove è in vigore l’osservanza della regola - ammoniti dall’ordinario, avessero, in concreto, cessato dall’esercitare con tutti i mezzi necessari, cui sono tenuti, il dovere dell’ospitalità, potranno essere costretti a ciò con le censure ecclesiastiche e con altri mezzi legali. Potranno anche essere privati per sempre dell’amministrazione e della cura dello stesso ospedale e sostituiti con altri. Coloro saranno tenuti, in coscienza, alla restituzione dei frutti che avessero percepito contro lo scopo degli stessi ospedali, che non potrà essere in nessun modo condonata o attenuata da una composizione.
L’amministrazione o il governo di tali luoghi non sia mai affidata in futuro alla stessa, identica persona, a meno che nelle tavole di fondazione non si trovi scritto diversamente. Per quanto riguarda tutte queste disposizioni, intendiamo che abbiano valore, non ostante qualsiasi unione, esenzione e consuetudine in contrario, anche immemorabile, indulti e privilegi di qualsiasi natura.

Capitolo IX


Come non è giusto abolire i legittimi diritti di patronato e violare le pie volontà dei fedeli, così non deve permettersi che con questa scusa si assoggettino i benefici ecclesiastici, come da molti svergognatamente si sta facendo. Perché, quindi, in ogni cosa si osservi il debito modo, il santo sinodo stabilisce che il "diritto di patronato" abbia origine da fondazione o da istituzione, che possa provarsi con documenti autentici e con gli altri elementi richiesti dal diritto; o anche da presentazioni che si siano ripetute per un tempo lunghissimo, che ecceda la memoria d’uomo; o anche in altro modo, secondo le disposizioni del diritto.
Quando, invece, si tratta di persone, comunità, o università, nelle quali si suppone per lo più che tale diritto abbia avuto origine facilmente da usurpazione, dovrà richiedersi una documentazione più nutrita e più scrupolosa, per poter provare questo titolo. E la prova del tempo immemorabile non sarà loro sufficiente, se non nel caso che oltre agli altri elementi necessari - si possano provare da atti autentici anche le presentazioni per non meno di cinquant’anni continui, e che abbiano sortito tutte il loro effetto.
Tutti gli altri patronati sui benefici, sia secolari che regolari o parrocchiali, sulle dignità o su qualsiasi altro beneficio, su una chiesa cattedrale o collegiata; e così pure le facoltà e i privilegi concessi, - sia in forza del patronato, che per qualsiasi altro diritto, - di nominare, scegliere e presentare ad essi quando si rendono vacanti (eccetto, i legittimi patronati sulle chiese cattedrali e gli altri che appartengono all’imperatore, ai re, a quanti hanno un regno e agli altri principi supremi, che hanno diritto di comando sui loro sudditi, e quelli che sono stati concessi in favore degli studi generali), tutti questi, dunque, si devono considerare abrogati e nulli, insieme col quasi possesso che ne sia seguito. Questi benefici potranno esser conferiti, da quelli che hanno il diritto di darli, come benefici liberi e le provviste abbiano pieno effetto giuridico. I vescovi, inoltre, potranno respingere quelli che sono stati presentati dai patroni, se non fossero adatti. Se il diritto di istituzione appartenesse ad inferiori, i candidati siano esaminati dal vescovo, conformemente a quanto altrove è stato stabilito da questo santo sinodo. In caso contrario, il conferimento fatto dagli inferiori, sia nullo e vano.
Quanto ai patroni dei benefici di qualsiasi ordine e dignità, anche se fossero comuni, università, collegi di qualsiasi qualità di chierici o di laici, quando si tratta della riscossione dei frutti, dei proventi, delle entrate di qualsiasi beneficio, anche se avessero su di essi, per fondazione e dotazione, il diritto di patronato, non si intromettano in nessun modo e per nessun motivo ed occasione ma, non ostante qualsiasi consuetudine, li lascino liberamente al rettore o beneficiario, perché li distribuisca. Né osino trasferire ad altri tale diritto di patronato con titolo di vendita, o con qualsiasi altro titolo, contro le disposizioni del diritto. Se facessero diversamente, siano sottoposti alla scomunica e all’interdetto, e siano per ciò stesso privati del diritto di patronato.
Le accessioni, inoltre, - fatte per via di unione - di benefici liberi alle chiese soggette al diritto di patronato, anche di laici, a chiese parrocchiali ed altri benefici di qualsiasi specie, anche semplici, alle dignità o agli ospedali, così da trasformare questi benefici liberi in benefici della stessa natura di quelli cui vengono uniti, e da sottoporli al diritto di patronato, se non hanno ancora conseguito completamente il loro effetto, si deve supporre che le stesse unioni siano state concesse con la simulazione, non ostante qualsiasi formula usata o derogazione espressa. Lo stesso sarà di quelle fatte in futuro, da qualsiasi autorità, anche apostolica. Tali unioni non dovranno più essere eseguite; e gli stessi benefici uniti, quando si renderanno vacanti, siano assegnati liberamente come prima.
Quelle fatte da non più di quarant’anni, malgrado avessero ottenuto il loro effetto e la piena incorporazione, siano rivedute ed esaminate dagli ordinari, come delegati della sede apostolica; quelle che fossero state ottenute con la falsità o con l’inganno, siano dichiarate nulle assieme con le unioni; i benefici siano separati e conferiti ad altri.
Allo stesso modo, qualunque patronato sulle chiese e su qualsiasi altro beneficio o dignità prima libero, acquistato da non oltre quarant’anni, e quelli che saranno acquistati in futuro, per aumento della dote, per una nuova costruzione o per altra simile causa, siano diligentemente esaminati dagli ordinari, anche con l’autorità della sede apostolica, quali suoi delegati, come già detto sopra, senza che in ciò possano trovare impedimento nelle facoltà o nei privilegi concessi a chiunque. Quelli che non fossero stati legittimamente costituiti per un’evidentissima necessità di una chiesa, di un beneficio o di una dignità, siano revocati, senza danno di chi li ha, e dopo aver restituito al patrono quello che egli avesse dato per ottenere il diritto, restituiscano tali benefici al primitivo stato di libertà, non ostante i privilegi, le costituzioni e le consuetudini, anche immemorabili.

Capitolo X


I maliziosi suggerimenti dei richiedenti e talora anche la lontananza dei luoghi non consentono di avere una conoscenza adeguata delle persone, cui si affidano le cause, e, quindi, qualche volta le cause, nelle loro varie fasi, sono rimesse a giudici non del tutto idonei. Il santo sinodo stabilisce che, nei singoli concili provinciali o diocesani, si scelgano delle persone che presentino le qualità richieste dalla costituzione di Bonifacio VIII, che inizia: Statutum (417), adatte sotto ogni altro aspetto a questo incarico, affinché oltre che agli ordinari dei luoghi, anche ad essi, in seguito, siano affidate le cause ecclesiastiche e spirituali, appartenenti al foro ecclesiastico, da delegarsi nei vari luoghi.
Se, nel frattempo, morisse uno di quelli designati, l’ordinario con il consiglio del capitolo, sostituisca un altro al suo posto, fino al concilio provinciale o diocesano. Così ogni diocesi avrà almeno quattro o più persone approvate e, come è stato detto sopra, qualificate, cui tali cause possano essere affidate da qualsiasi legato, o nunzio, o anche dalla sede apostolica.
Del resto, dopo la designazione, - che immediatamente i vescovi trasmetteranno al sommo pontefice romano, - qualsiasi delega fatta ad altri giudici deve considerarsi illegale. Il santo sinodo ammonisce sia i giudici ordinari che ogni altro giudice, che cerchino di porre termine alle cause nel più breve tempo possibile; con la fissazione del termine o con altra misura adatta, cerchino di opporsi alle arti dei litiganti, sia nella contestazione della lite, sia nel differire qualche altra parte della causa.

Capitolo XI

Un grande pregiudizio deriva alle chiese, quando si affittano i loro beni per denaro in contanti, a discapito dei successori. Quindi tutte queste locazioni - se vengono effettuate con pagamento anticipato - in nessun modo devono ritenersi valide, con pregiudizio dei successori, non ostante qualsiasi indulto o privilegio. Né queste locazioni potranno esser confermate nella curia romana o fuori di essa.
Non sarà lecito neppure affittare le giurisdizioni ecclesiastiche, cioè le facoltà di nominare o di designare i vicari spirituali, né sarà permesso agli affittuari di esercitare tali facoltà, direttamente o per mezzo di altri. In caso contrario, le concessioni, anche quelle provenienti dalla sede apostolica, siano considerate illegali.
Il santo sinodo inoltre, dichiara nulle, anche se sono state confermate dall’autorità apostolica, le locazioni fatte da non più di trent’anni e per lungo tempo, ossia - come dicono in alcune parti - per ventinove anni, o per due volte ventinove anni, e che il sinodo provinciale, o persone da esso deputate, giudicheranno essere state fatte in danno della chiesa, contro le disposizioni canoniche.

Capitolo XII


Non si devono sopportare quelli che, con varie arti, cercano di sottrarre le decime spettanti alle chiese, o quelli che si impadroniscono temerariamente di quelle dovute dagli altri; il pagamento delle decime, infatti, è dovuto a Dio; quelli che non intendono pagarle, o impediscono agli altri di farlo, si appropriano di cose altrui (418).
Il santo sinodo, quindi, comanda a tutti quelli che hanno il dovere di pagar le decime, di qualunque grado o condizione essi siano, che in futuro paghino completamente le decime, a cui per diritto sono tenuti, alla cattedrale o a qualsiasi altra chiesa o persona, alla quale sono legittimamente dovute. E quelli che le sottraggono o ne impediscono il pagamento, siano scomunicati, senza che possano essere assolti da questa colpa, se non a completa restituzione avvenuta.
Il santo sinodo esorta quindi tutti e ciascuno affinché, per carità cristiana e per il dovere che hanno verso i loro pastori, non trovino pesante venire largamente incontro con i beni loro dati da Dio a quei vescovi e parroci che sono a capo di chiese meno provvedute, a lode di Dio e a salvaguardia della dignità dei loro pastori, che vegliano per essi (419).

Capitolo XIII


Il santo sinodo dispone che in tutti quei luoghi, dove da oltre quarant’anni soleva esser versata la quarta funeraria alla chiesa cattedrale o parrocchiale, e dove poi fosse stata concessa ad altri enti: monasteri, ospedali o qualsiasi luogo pio, per qualsiasi privilegio, essa, nonostante le concessioni, le grazie, i privilegi, anche quelli chiamati Mare magnum od altri di qualsiasi specie, in seguito venga versata, con pieno diritto e nella stessa misura, alla chiesa cattedrale o parrocchiale.

Capitolo XIV


Quanto sia turpe ed indegno del nome di chierici - che si sono consacrati al culto di Dio - vivere nell’abbiezione dell’impurità e nell’immondo concubinato, lo dimostra a sufficienza la cosa stessa, in sé, per il comune disagio di tutti i fedeli e il grande disonore della milizia clericale.
Perché, dunque, i ministri della chiesa siano richiamati a quella continenza ed integrità di vita, che si deve e perché, di conseguenza, il popolo impari a riverirli tanto maggiormente, quanto più si accorgerà che essi conducono una vita onesta, il santo sinodo proibisce a qualsiasi chierico di tenere, in casa o fuori, concubine o altre donne su cui possano cader sospetti o di aver con esse qualche relazione. Altrimenti, siano puniti con le pene stabilite dai sacri canoni o dalle disposizioni delle chiese. Se ammoniti dai superiori, non si astenessero da esse, siano privati per ciò stesso della terza parte dei frutti, degli introiti e dei proventi di qualsiasi loro beneficio e di qualsiasi pensione, che sarà devoluta alla fabbrica della chiesa o ad altro luogo pio, a giudizio del vescovo.
Se poi, perseverando nella colpa con la stessa o altra donna, non ascoltassero neppure la seconda ammonizione, non solo perderanno per ciò stesso ogni frutto o provento dei loro benefici e le pensioni - che saranno devoluti agli stessi enti -, ma saranno anche sospesi dall’amministrazione degli stessi benefici, fino a che piacerà all’ordinario, anche come delegato della sede apostolica. Se, finalmente, così sospesi, non le rimandassero o anche avessero qualche relazione con esse, allora siano privati per sempre di ogni beneficio, porzione, ufficio, pensione ecclesiastica e siano resi inabili per l’avvenire e considerati indegni di qualsiasi onore, dignità, beneficio, ufficio, fino a quando, dopo l’evidente emendamento della vita, non sembri opportuno ai loro superiori, per giusto motivo, di dispensarli. Se poi avvenisse che, dopo averle rimandate, osassero riprendere la relazione interrotta o anche prendere con sé altre simili donne scandalose, oltre alle pene già dette, siano colpiti con la scomunica; e non vi sarà appello o esenzione che possa impedirlo.
La competenza su tutto ciò che è stato detto non riguarderà gli arcidiaconi o i decani od altri inferiori, ma gli stessi vescovi, che potranno procedere senza rumore e senza un apparato giudiziario, ma attenendosi alla sola verità del fatto. I chierici che non avessero benefici ecclesiastici o pensioni, siano puniti dallo stesso vescovo, a seconda della loro ostinazione e della qualità del delitto, con la pena del carcere, con la sospensione dall’ordine, con l’inabilità ad ottenere benefici e con altri mezzi, in conformità dei sacri canoni.
Qualora anche i vescovi (Dio non voglia!) non si astenessero da tale delitto, e, ammoniti dal sinodo provinciale, non si correggessero, siano ipso facto sospesi; e, se continuassero, siano anche deferiti al romano pontefice, che li punirà secondo la qualità della colpa, e, se necessario, anche con la privazione.

Capitolo XV


Perché il ricordo dell’incontinenza paterna sia tenuto lontano dai luoghi consacrati a Dio, cui si conviene sommamente la purezza e la santità, non sia lecito ai figli di chierici non nati da legittimo matrimonio, avere un qualsiasi beneficio, anche diverso, in quelle chiese dove i loro padri hanno presentemente qualche beneficio ecclesiastico; e neppure sia lecito ad essi, in qualche modo, servire nelle stesse chiese e avere pensioni sui frutti dei benefici che i loro genitori avessero o avessero avuto in passato. Che se attualmente si desse il caso che padre e figlio abbiano benefici nella stessa chiesa, il figlio sia costretto a rinunziare al suo beneficio entro tre mesi, o a cambiarlo con un altro posto altrove. Diversamente, ne sia giuridicamente privato ed ogni dispensa su ciò sia considerata invalida.
Inoltre, le rinunzie scambievoli, qualora in futuro ne venissero fatte da genitori chierici a favore dei figli, - così che l’uno passi il beneficio all’altro -, siano considerate come fatte in frode a questo decreto; e i conferimenti seguiti a causa di queste rinunzie o di altre, che fossero state fatte in frode alla legge, non porteranno ai figli dei chierici alcun vantaggio.

Capitolo XVI

Il santo sinodo stabilisce che i benefici ecclesiastici secolari, qualunque nome abbiano, che fin dal loro sorgere, o in qualsiasi altro modo, implichino cura d’anime, in futuro non possano essere trasformati in benefici semplici, anche se ne fosse assegnata ad un vicario perpetuo la dovuta porzione. Ciò, non ostante qualsiasi grazia, che però non abbia ottenuto ancora pienamente il suo effetto.
In quelli, invece, nei quali - contro la loro istituzione o fondazione - la cura d’anime è stata trasferita ad un vicario perpetuo, anche se si trovassero in questo stato da tempo immemorabile, se non fosse stata assegnata la dovuta parte dei frutti al vicario perpetuo della chiesa, comunque esso si chiami, quanto prima ed al massimo entro un anno dalla fine del presente concilio, gli venga assegnata a giudizio dell’ordinario, secondo quanto stabilisce il decreto emanato sotto Paolo III, di felice memoria (420).
Se poi questo non potesse attuarsi facilmente, o entro il termine predetto non fosse stato eseguito, non appena per la rinunzia o per la morte del vicario o del rettore o in qualsiasi altra maniera, uno di essi venisse a vacare, il beneficio sia riunito alla cura d’anime, il nome di vicaria cessi, e sia riportata al suo stato primitivo.

Capitolo XVII


Il santo sinodo non può non rammaricarsi grandemente, sentendo che alcuni vescovi, dimenticando il loro stato, abbassano non poco la loro dignità episcopale, comportandosi in chiesa e fuori di essa con indecente servilismo con ministri regi, governatori, baroni, e quasi fossero inservienti di second’ordine all’altare, non solo danno ad essi la precedenza, senza alcuna dignità, ma li servono anche personalmente.
Perciò questo santo sinodo, detestando queste e simili manifestazioni, rinnovando tutti i sacri canoni e i concili generali e le altre disposizioni apostoliche, che riguardano il decoro e la maestà della dignità vescovile, comanda che in avvenire i vescovi si astengano da questo modo di agire e che, in chiesa e fuori abbiano dinanzi agli occhi il loro grado e il loro ordine e si ricordino dovunque di essere padri e pastori. Esorta, poi, i principi e tutti gli altri a trattarli con l’onore dovuto ai padri e con la debita riverenza.

Capitolo XVIII


Come qualche volta può essere utile allentare pubblicamente il freno della legge, perché più facilmente si possa far fronte ai casi e alle necessità che si presentano, per la comune utilità, così sciogliere troppo frequentemente la legge ed essere indulgenti con quelli che lo richiedono, senza considerare le persone e le circostanze, non è altro che aprire la strada alla trasgressione delle leggi.
Perciò sappiano tutti che i sacratissimi canoni devono essere osservati da tutti, e, almeno finché si può, senza alcuna distinzione. Se poi un motivo urgente e ragionevole ed una utilità maggiore richiederà qualche volta che in certi casi si debba dispensare, questo dovrà farsi solo dopo aver ben riflettuto e gratuitamente, da parte di tutti quelli che hanno il potere di dispensare. In caso diverso, la dispensa sia considerata invalida.

Capitolo XIX


L’usanza dei duelli, - introdotta dal diavolo, perché con la morte sanguinosa dei corpi consegua anche la morte delle anime -, sia del tutto proscritta dal mondo cristiano. A questo riguardo, l’imperatore, i re, i duchi, i principi, i marchesi, i conti e gli altri signori temporali comunque essi vengano chiamati, che concedessero un luogo, nelle loro terre, per queste singolari tenzoni fra i cristiani, siano senz’altro scomunicati e privati di ogni giurisdizione e di ogni dominio su quella città, castello o luogo, nel quale o presso il quale permettessero il duello, qualora li avessero da parte della chiesa; se fossero feudali, ripassino subito sotto il dominio dei loro diretti signori.
Quelli che combattono e i loro così detti "padrini" incorrano nella scomunica e nella proscrizione di tutti i loro beni e nell’infamia perpetua; e dovranno esser puniti, secondo i sacri canoni, come omicidi; e, se morissero durante il combattimento, essere privati per sempre della sepoltura ecclesiastica. Anche quelli che nel caso del duello dessero il loro consiglio, sia in teoria che in pratica o in qualsiasi altro modo persuadessero qualcuno a ciò; ed inoltre gli spettatori, siano legati dal vincolo della scomunica e della maledizione eterna. Ciò, non ostante qualsiasi privilegio, o qualsiasi perversa consuetudine, anche immemorabile.

Capitolo XX


Il santo sinodo, desiderando che la disciplina ecclesiastica non solo torni al suo primitivo splendore tra il popolo cristiano, ma si mantenga sempre salda e al sicuro da qualsiasi impedimento, oltre a quello che ha stabilito per le persone ecclesiastiche, crede di dover ricordare il loro dovere anche ai principi secolari. E spera che essi, come cattolici che Dio ha voluto protettori della santa fede e della chiesa, non solo vorranno permettere che alla chiesa venga restituito il proprio diritto, ma richiameranno tutti i loro sudditi alla dovuta riverenza verso il clero, i parroci, e gli ordini maggiori. Non permetteranno che i loro officiali ed autorità inferiori, per cupidigia o per una certa negligenza, violino l’immunità della chiesa e delle persone ecclesiastiche, stabilita per ordinamento divino e sancita dai sacri canoni; ma li obbligheranno col loro stesso esempio, mostrando il dovuto rispetto per le costituzioni dei sommi pontefici e dei concili.
Stabilisce, quindi, ed ordina che i sacri canoni e tutti i concili generali e le altre disposizioni apostoliche, emanate a favore delle persone ecclesiastiche, della libertà ecclesiastica e contro i suoi violatori, - che rinnova tutte anche col presente decreto - debbano essere osservate scrupolosamente da tutti. Ammonisce, perciò, l’imperatore, i re, le repubbliche, i prìncipi e ciascuno di essi, di qualunque stato e dignità essi siano, affinché quanto più largamente sono stati dotati di beni temporali e quanto maggiore è la loro autorità, tanto più profondamente mostrino la loro venerazione per quelle cose che sono di diritto ecclesiastico, perché esse stanno sommamente a cuore a Dio e sono sotto il suo patrocinio. Essi non tollerino che alcun barone, signorotto, reggente o altro magistrato temporale e specialmente alcuno dei loro dipendenti vi porti offesa. Vogliano, piuttosto, prendere severi provvedimenti contro quelli che impediscono la sua libertà, la sua immunità e la sua giurisdizione. Si mostrino loro, anzi, come esempio di pietà, di religione, di protezione delle chiese, imitando gli ottimi e religiosissimi prìncipi loro antenati, che con la loro sovrana autorità e munificenza accrebbero il patrimonio della chiesa, per non parlare della difesa che essi ne fecero dalle ingiurie degli altri.
Ciascuno, quindi, in questo campo, compia con diligenza il proprio dovere; così il culto divino potrà essere devotamente celebrato; i prelati e gli altri chierici potranno rimanere tranquilli e senza alcun impedimento nelle loro sedi, e attendere ai loro doveri, con frutto e con edificazione del popolo.

Capitolo XXI
Come ultima cosa, il santo sinodo dichiara che tutto quello che è stato stabilito in questo concilio, tanto sotto Paolo III e Giulio III, di felice memoria, quanto sotto Pio IV, sommi pontefici, - sia preso nel suo insieme che nelle singole prescrizioni -, riguardo alla riforma dei costumi e alla disciplina ecclesiastica, con qualsiasi formula ed espressione sia stato enunciato, è stato stabilito in modo che sia sempre salva, e si debba intendere sempre salva, l’autorità della sede apostolica. 

Decreto di proseguimento della sessione per il giorno seguente.


Dato che non tutto quello che avrebbe dovuto esser trattato nella presente sessione può esser condotto a termine, essendo già tardi, secondo quanto è stato stabilito dai padri in congregazione generale, quello che rimane viene rimandato a domani, continuando questa stessa sessione.

Decreti pubblicati il secondo giorno della sessione.


Le indulgenze.


La potestà di elargire indulgenze è stata concessa alla chiesa da Cristo ed essa ha usato di questo potere, ad essa divinamente concesso, fin dai tempi più antichi. Per questo il santo sinodo insegna e comanda di mantenere nella chiesa quest’uso, utilissimo al popolo cristiano e approvato dall’autorità dei sacri concili e colpisce di anatema quelli che asseriscono che esse sono inutili o che la chiesa non ha potere di concederle. Esso, però, desidera che nel concedere queste indulgenze si usi moderazione, secondo l’uso antico e approvato nella chiesa, perché per la troppa facilità la disciplina della chiesa non debba indebolirsi.
Desiderando poi che vengano emendati e corretti gli abusi in questo campo, in occasione dei quali questo augusto nome delle indulgenze viene bestemmiato dagli eretici, col presente decreto stabilisce, in generale, che si debba assolutamente abolire, per conseguirle, qualsiasi indegno traffico, da cui sono sgorgati per il popolo cristiano infiniti motivi di abuso.
Gli altri abusi che sono promanati in qualsiasi modo dalla superstizione, dall’ignoranza, dalla mancanza di rispetto, e da altre cause, non potendosi facilmente proibire più minutamente, per le diverse forme di corruzione delle province e dei luoghi in cui si commettono, il santo sinodo comanda a tutti i vescovi che ognuno raccolga diligentemente questi abusi nella sua chiesa, e ne faccia una relazione al primo sinodo provinciale, così che, sentita anche l’opinione degli altri vescovi, siano subito riferiti al sommo pontefice romano, il quale, nella sua autorità e prudenza stabilisca quello che giova a tutta la chiesa, affinché il dono delle sante indulgenze sia dispensato piamente, e santamente, e senza alcuna corruttela a tutti i fedeli.

La scelta dei cibi, i digiuni, le feste.


Il santo concilio esorta, inoltre, e scongiura tutti i pastori, per la venuta santissima del salvatore nostro Gesù Cristo, perché, come buoni soldati, raccomandino industriosamente e con ogni diligenza a tutti i fedeli tutto ciò che stabilisce la santa chiesa romana, madre e maestra di tutte le chiese, come pure quello che è stato stabilito in questo e negli altri concili ecumenici, perché mettano in pratica ogni cosa, specialmente quello che riguarda la mortificazione della carne, come la scelta dei cibi e i digiuni, o servono ad accrescere la pietà, come la celebrazione devota e religiosa dei giorni festivi. E ammoniscano frequentemente i popoli ad obbedire quanti sono loro preposti (421); poiché chi ascolta questi, troverà Dio remuneratore, chi li disprezza, proverà la sua vendetta.

L’indice dei libri, il catechismo, il breviario, il messale.


Nella seconda sessione - celebrata sotto il santissimo signore nostro Pio IV (422) -, il sacrosanto sinodo, scelti alcuni padri, li incaricò, perché pensassero cosa si sarebbe dovuto fare delle varie censure e dei libri sospetti o pericolosi, e ne riferissero poi allo stesso santo concilio. Ora sente dire che essi hanno posto fine a questo incarico. Ma per la grande diversità e per il gran numero dei libri, esso non può facilmente giudicarli, uno per uno. Comanda quindi, che tutte le loro conclusioni siano presentate al romano pontefice, perché secondo il suo giudizio e la sua autorità quello che essi hanno fatto sia portato a termine e pubblicato. La stessa cosa comanda che facciano i padri, che hanno ricevuto l’incarico per il catechismo, per il messale e per il breviario.

La precedenza degli oratori.


Quanto al luogo assegnato agli ambasciatori, sia ecclesiastici che secolari, sia nel sedere che nell’incedere ed in ogni loro altro atto, non è stato recato a nessuno di essi alcun pregiudizio, ma ogni loro diritto e prerogativa - come pure quelle dell’imperatore, dei re, delle repubbliche e dei loro prìncipi - sono rimasti intatti e salvi. Essi, cioè, sono rimasti tali e quali erano prima del presente concilio.

Dovere di accettare e di osservare i decreti del concilio.


È stata così grande la sventura di questi nostri tempi e la inveterata malizia degli eretici, che niente è stato mai tanto chiaro nell’affermazione della nostra fede o stabilito con tanta certezza che essi, su istigazione del nemico del genere umano, non abbiano contaminato. Per questo motivo il santo sinodo si è curato specialmente di condannare e anatematizzare i principali errori degli eretici del nostro tempo e di presentare ed insegnare la vera dottrina cattolica, come di fatto ha condannato, anatematizzato e definito.
Poiché tanti vescovi, chiamati dalle varie province del mondo cristiano, non potrebbero senza grave danno per il gregge e senza pericolo per tutti star lontani più a lungo dalle loro chiese e poiché, d’altra parte, non c’è più speranza che gli eretici, invitati tante volte - anche con il salvacondotto, che essi avevano chiesto - e attesi per tanto tempo, possano venire ed è, quindi, necessario porre fine a questo sacro concilio; non resta altro - come si fa in realtà, - che ammonire i principi perché vogliano prestare la loro opera, e non permettano che i decreti da esso emanati siano corrotti e violati dagli eretici, ma facciano in modo che da questi e da tutti siano accettati con devozione e siano fedelmente osservati.
Se nella loro ricezione sorgesse qualche difficoltà, o sia sfuggito qualche cosa che richieda una dichiarazione o una definizione - ma il concilio non lo crede -, esso confida che oltre agli altri mezzi messi a disposizione da questo santo concilio, il santissimo pontefice romano - chiamati quelli che gli sembrerà necessario per trattare quel problema (specie da quelle province dalle quali è sorta la difficoltà) o con la celebrazione di un concilio generale, se lo crederà necessario, o in qualunque altro modo che gli sembri opportuno, - si preoccuperà di provvedere alle necessita delle province, per la gloria di Dio e la tranquillità della chiesa.

Decreto sulla lettura in questa sessione dei decreti pubblicati in questo stesso concilio sotto i sommi pontefici Paolo III e Giulio III.

Poiché in diversi tempi, tanto sotto Paolo III quanto sotto Giulio III, di felice memoria, sono state stabilite e definite molte cose in questo santo concilio sulle dottrine e la riforma dei costumi, il santo concilio intende che esse siano recitate e lette.

Decreto sulla fine del concilio e sulla conferma da chiedersi al sommo pontefice.


Illustrissimi signori e reverendissimi padri, credete opportuno che a lode di Dio onnipotente si chiuda questo sacro concilio ecumenico, e che di tutte le singole cose stabilite e definite sotto i romani pontefici Paolo III e Giulio III, di felice memoria, e il nostro santissimo signore Pio IV, si chieda conferma al beatissimo pontefice romano, a nome di questo santo concilio, per mezzo dei presidenti e legati della sede apostolica? [Risposero: sì]. 
 
 
Note 
410. C. un., III, 16, in VI (Friedberg 2, 1053).
411. Concilio Lateranense IV, c. 12 (v. sopra).
412. Concilio IV di Cartagine (398), c. 15 (Mansi 3, 952).
413. Sessione VI, c. 4 de ref. (v. sopra).
414. Sessione XXIV, c. 8 de ref. matr. (v. sopra).
415. Cfr. 
Mt 25, 35-36; Lc 24, 29-30.
416. Concilio di Vienne, c. 17 (COD, 374-376); cfr. sessione VII, c. 15 de ref. (v. sopra).
417. C. 11, I, 3, in VI (Friedberg 2, 941 seg.).
418. Cfr. 
Es 22, 29; Lv 27, 30; Nm 18, 21-22 e altri luoghi.
419. Cfr. 
Eb 13, 17.
420. Sessione VII, c. 7 de ref. (v. sopra).
421. Cfr. 
Eb 13, 17.
422. Sessione XVIII (v. sopra).
 

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