Siamo a Cartagine, Africa del Nord, anno 203. Vennero arrestati i seguenti giovani catecumeni: Revocato con Felicita sua compagna di schiavitù; Saturnino e Secondulo; e con essi anche Vibia Perpetua, di civile condizione, signorilmente educata, sposata secondo le regole delle matrone. Essa aveva ancora padre e madre, due fratelli, uno dei quali parimenti catecumeno, ed un bambinello lattante. Era in età di circa ventidue anni. Perpetua ha narrato essa stessa la storia del proprio martirio e ce ne ha lasciato memoria scritta di sua mano e secondo le sue impressioni.
"Quando ancora eravamo sotto vigilanza di coloro che ci avevano arrestate, e mio padre cercava con le sue parole di farmi recedere dal mio proposito e, mosso dal proprio affetto, si ostinava a scuotere la mia fede, io gli dissi: Padre mio, vedi, a mo' d'esempio il vaso che sta lì sia esso di coccio o altro?. Egli mi rispose: Lo vedo. Ed io a lui: Forse che si può designare con un nome diverso da quello che esso è?. Rispose: No. Ed io: Così anch'io non posso chiamarmi in altro modo da'quello che sono: cristiana. Allora il padre mio esasperato da questa parola, si getta su di me come se volesse cavarmi gli occhi; mi malmenò soltanto, e se ne partì sopraffatto dalle suggestioni del demonio. Nei pochi giorni seguenti ringraziai Iddio di essere liberata dalla presenza di mio padre e mi sentii sollevata per la sua lontananza.
In quel periodo di pochi giorni fummo battezzati: e lo Spirito mi fece intendere che non dovevo domandar altro all'acqua lustrale se non la resistenza fisica. Pochi giorni dopo veniamo rinchiusi nel carcere: ne fui spaventata, non avvezza mai qual ero a tale oscurità. O giorno durissimo! Afa opprimente per la gran massa di gente e ruberie dei soldati.
"Quando ancora eravamo sotto vigilanza di coloro che ci avevano arrestate, e mio padre cercava con le sue parole di farmi recedere dal mio proposito e, mosso dal proprio affetto, si ostinava a scuotere la mia fede, io gli dissi: Padre mio, vedi, a mo' d'esempio il vaso che sta lì sia esso di coccio o altro?. Egli mi rispose: Lo vedo. Ed io a lui: Forse che si può designare con un nome diverso da quello che esso è?. Rispose: No. Ed io: Così anch'io non posso chiamarmi in altro modo da'quello che sono: cristiana. Allora il padre mio esasperato da questa parola, si getta su di me come se volesse cavarmi gli occhi; mi malmenò soltanto, e se ne partì sopraffatto dalle suggestioni del demonio. Nei pochi giorni seguenti ringraziai Iddio di essere liberata dalla presenza di mio padre e mi sentii sollevata per la sua lontananza.
In quel periodo di pochi giorni fummo battezzati: e lo Spirito mi fece intendere che non dovevo domandar altro all'acqua lustrale se non la resistenza fisica. Pochi giorni dopo veniamo rinchiusi nel carcere: ne fui spaventata, non avvezza mai qual ero a tale oscurità. O giorno durissimo! Afa opprimente per la gran massa di gente e ruberie dei soldati.
Oltre tutto questo, ero anche angosciata per il pensiero del bambino. Allora i benedetti diaconi Terzio e Pomponìo, che ci assistevano, ottennero, dietro compenso in denaro, che ci fosse concesso per qualche ora di rimetterci in un ambiente migliore del carcere. Così, usciti che fummo, ciascuno poteva attendere a se stesso: io davo il latte al bambino, sfinito per il lungo digiuno: preoccupata per lui, ne parlavo con mia madre, confortavo il fratello, raccomandavo il figlio; ma mi struggevo vedendo che egli si struggeva per causa mia. Per molti giorni vissi in tali preoccupazioni: poi ottenni che il bambino rimanesse meco nel carcere, e subito ripresi forza, mi sentii libera dalla gravosa preoccupazione per il bambino: il carcere mi si trasformò in una reggia; mi trovavo meglio lì che in qualsiasi altro luogo.
Mio fratello un giorno mi disse: Signora e sorella mia, ecco, tu sei ora in tal grado di onore, da poter chiedere a Dio una visione, per sapere se ti attende il martirio o la liberazione. Ed io che sapevo di poter parlare con il Signore da cui avevo già ricevuto tanti benefici, glielo promisi fiduciosa, dicendogli: Domani ne saprai qualcosa. Richiesi la visione, ed ecco quello che mi fu mostrato. Vidi una scala di bronzo tanto straordinariamente alta che arrivava fino al cielo, ma così stretta che non vi si poteva salire se non ad uno ad uno, e nelle barre della scala erano infissi ferri di ogni specie. Vi erano spade, lance, uncini, sciabole, spiedi, in modo che chi vi salisse sbadatamente o non tenendo fisso in alto lo sguardo ne era straziato e lasciava brandelli di carne sui ferri. Ai piedi della scala poi stava accovacciato un drago immenso che tendeva insidie a coloro che salivano e li spaventava affinché non ascendessero. Satiro vi salì per primo: egli si era consegnato spontaneamente successivamente, non essendo presente quando eravamo stati arrestati: era stato lui che ci aveva convertiti. Giunse alla sommità della scala, si voltò e mi disse: Perpetua, ti sostengo io, ma fa' attenzione che quel drago non ti addenti. Ed io dissi: Non mi farà male, nel nome di Cristo. Ed esso, quasi di me timoroso, cacciò piano piano il capo sotto la scala: io posi il piede sul capo come lo ponessi sul primo gradino, e salii. Vidi allora la distesa immensa di un giardino, in mezzo al quale sedeva un uomo canuto, vestito come un pastore, che mungeva le pecore: gli stavano intorno molte migliaia di persone biancovestite. Alzò il capo, mi vide e disse: Ben venuta, figliuola. Mi chiamò a sé e mi diede un boccone del cacio che fabbricava: io lo ricevetti con le mani giunte e lo mangiai: e tutti ì circostanti dissero: Amen. Al suono di quelle voci mi risvegliai, mentre ancora stavo mangiando non so qual cosa dolce.
Tosto riferii la visione al fratello: e capimmo che ci aspettava il martirio e deponemmo ogni speranza nelle cose di questo mondo. Pochi giorni dopo corse voce che avremmo subito l'interrogatorio. Accorse dalla città mio padre, sfinito dal dolore, salì fino a me per stornarmi dal mio proposito, dicendo: Abbi pietà, o figlia, dei miei bianchi capelli; abbi pietà di tuo padre se sono degno di essere chiamato da te padre; se con queste mani ti ho sorretta fino al fiore dell'età; se ti ho sempre preferita a tutti i tuoi fratelli, non condannarmi al disonore degli uomini. Volgi lo sguardo ai tuoi fratelli, alla madre tua, alla zia; guarda il tuo figliuolo che non ti potrà sopravvivere. Rinuncia alla tua risoluzione, non voler la rovina di noi tutti: nessuno di noi potrà più parlare apertamente se ti accadesse qualche cosa. Così parlava, come padre, per il suo affetto, e mi baciava le mani e, gettatosi ai miei piedi, piangeva e non mi chiamava più figlia ma signora. Ed io mi rattristavo per la sorte del padre mio, il solo di tutta la mia famiglia che non avrebbe avuto gioia dal mio martirio: e lo confortavo dicendogli: Avverrà su quel palco ciò che Iddio vorrà; sappi che noi non siamo in potere di noi stessi, ma in quello di Dio. Ed egli si allontanò pieno di tristezza.
Un altro giorno, mentre si mangiava, fummo trascinati improvvisamente all'interrogatorio. Ed arrivammo al Foro. La notizia si propagò tosto nelle adiacenze della piazza e si formò una grandissima folla. Salimmo sul palco. Gli altri, interrogati, si dichiararono cristiani. Venne poi la mia volta. E tosto si presentò mio padre con il figlio mio e mi fece scendere dalla pedana, dicendomi: Sacrifica, abbi pietà del bambino. Ed il procuratore Ilarione, che in quel momento era investito del diritto di vita e di morte in sostituzione del proconsole Minucio Tirminiano defunto, disse: Risparmia la canizie di tuo padre, risparmia l'infanzia del tuo bambino. Compi il sacrificio per la salvezza degli Imperatori. Ed io risposi: Non lo compio. Ilariano: Sei cristiana?, domandò. Risposi: Sono cristiana. E siccome il padre era sul punto di gettarmi a terra, per ordine di Ilariano fu strappato via e battuto con le verghe. Fui straziata per quanto era occorso a mio padre come se fossi stata percossa io stessa; fui straziata per la sua misera vecchiaia. Allora il giudice emana la sentenza e ci condanna tutti alle fiere. Rientrammo lieti in carcere. E poiché il bambino era avvezzo ad attaccarsi al mio seno ed a star meco in carcere, mando tosto il diacono Pomponio a mio padre perché richieda il bambino. Ma mio padre non volle consegnarlo. E, come piacque a Dio, egli non chiese più le mammelle e queste non mi diedero più gravezza, sicché non fui angustiata dalla preoccupazione per il bimbo, né dal dolore del seno.
Pochi giorni dopo, mentre tutti stavamo pregando, improvvisamente, nel bel mezzo della preghiera, mi sfuggi un nome, quello di Dinocrate. Ne fui stupita perché non mi era mai venuto in mente prima d'ora e il pensiero della sua fine mi addolorò. Ebbi tosto la sensazione di essere divenuta degna e di dover intercedere per lui: e cominciai a far lunghe orazioni a suo vantaggio ed a sospirare verso il Signore. Subito nella notte mi fu mostrato quanto segue. Vedo Dinocrate che sta per uscire da un luogo pieno di tenebre, dove stavano anche molti altri, accaldato e assetato, in abiti sordidi, pallido in volto: ed aveva sulla faccia la piaga per la quale era morto. Era stato Dinocrate un mio fratello carnale, di sette anni, che, ammalato di cancrena al viso, aveva avuto una fine pietosa, cosicché la sua morte aveva fatto orrore a tutti. Per lui dunque io avevo cominciato a pregare: una grande distanza mi divideva da lui, in modo che nessuno dei due. aveva possibilità di avvicinarsi all'altro. E ancora: là dove Dinocrate si trovava era anche una vasca piena d'acqua che aveva l'orlo più alto della statura del fanciullo, e Dinocrate vi si stendeva sopra come volesse bere. Ed io provavo dolore perché la vasca conteneva acqua e tuttavia egli non avrebbe potuto bere per l'altezza dell'orlo. Mi svegliai, e capii che il fratello mio soffriva; avevo fiducia però di poter giovare alla sua sofferenza. Ed ogni giorno pregavo per lui, finché passammo nel carcere militare: dovevamo infatti lottare in uno spettacolo militare: era vicino il giorno natalizio di Geta Cesare. Per Dinocrate pregai tutto il giorno e tutta la notte con gemiti e lagrime, perché mi fosse accordata la sua grazia. In un giorno in cui eravamo tenuti in ceppi, ecco che cosa mi apparve. Vidi ancora lo stesso luogo che mi era apparso prima, e Dinocrate con il corpo mondo, vestito bene, con aspetto sollevato: dove prima era la piaga, scorgo una cicatrice, e la vasca che avevo veduto allora aveva l'orlo abbassato sino all'ombelico del fanciullo e l'acqua fluiva ininterrottamente. Sull'orlo stava un'anforetta d'oro piena d'acqua. Dinocrate vi si avvicinò e cominciò a bere da essa e l'anfora non si vuotava. Saziato, prese a giocare con l'acqua divertendosi come fanno i fanciulli. Mi svegliai, e capii che egli era uscito di pena.
Pochi giorni dopo Pudente, un aiutante che sovraintendeva al carcere, cominciò a tessere le nostre lodi, avendo compreso che una grande forza era in noi: permetteva a molti di venire a trovarci, in modo che ci fosse possibile confortarci a vicenda. Quando poi fu vicino il giorno dello spettacolo, venne da me il padre mio, sfinito dall'angoscia, e cominciò a strapparsi e gettare per terra ciuffi di barba, a prostrarsi con la faccia al suolo, a maledire i propri anni, a uscire in tali detti che avrebbero commosso qualsiasi creatura. Ed io soffrivo per l'infelicità della sua vecchiaia.
Nel giorno precedente a quello del combattimento ebbi la seguente visione.
Era giunto il diacono Pomponio alla porta del carcere e bussava forte: andai a lui e gli aprii: era vestito di candida veste e calzava piccoli zoccoli. E mi disse: Perpetua, aspettiamo te, vieni. Mi tenne per mano e cominciammo a camminare per luoghi aspri e tortuosi. Finalmente giungemmo con fatica e anelanti all'anfiteatro; egli mi fece entrare nell'arena e mi disse: Non aver paura, io sono qui vicino a te e ti aiuto. E scomparve. Vidi allora una grande folla, attonita: e, sapendomi condannata alle fiere, mi meravigliavo che queste non mi fossero aizzate contro. Venne verso di me un certo Egiziano, terribile a vedersi, con i suoi aiutanti, per combattere contro di me. Intorno a me vengono giovani di bell'aspetto, aiutanti e partigiani miei. Venni spogliata e diventai maschio: e quei miei favoreggiatori cominciarono a spalmarmi d'olio come si fa per la lotta: invece vidi quell'Egiziano ravvoltolarsi nella polvere. E comparve un uomo di straordinaria altezza, tale che superava persino il fastigio dell'antifiteatro, in tunica sciolta, con una striscia di porpora tra le due spalle in mezzo al petto; aveva degli zoccoli svariati fatti d'oro e d'argento, e teneva in mano una verga a guisa di un capo gladiatore e un ramo verde che recava pomi d'oro. Chiese silenzio, e disse: Questo Egiziano se vincerà costei la ucciderà con la spada; se costei vincerà lui riceverà questo ramo. E se ne andò. Ci accostammo l'un l'altro, e cominciammo a scambiarci colpi: l'Egiziano tentava di afferrarmi i piedi, io lo colpivo in faccia con i calcagni. E mi sentii sollevata in aria, e cominciai a percuoterlo come se io non toccassi terra. Ma, quando vidi che la cosa andava per le lunghe, congiunsi le mani intrecciando tra loro le dita, gli afferrai il capo, ed egli cadde bocconi ed io gli calcai il capo. Il popolo cominciò a gridare ed i miei aiutanti a cantare. E mi avvicinai al capo gladiatore e ricevetti il ramo. Egli mi baciò e mi disse: Figlia, la pace sia con te. Ed io presi a camminare trionfante verso la porta Sanarivaria. Mi risvegliai. E capii che non dovevo combattere con le fiere, ma contro il demonio; ma sapevo che mia sarebbe stata la vittoria.
Ho narrato tutto quanto accadde fino alla vigilia dello spettacolo; lo svolgimento dello spettacolo stesso, altri, se lo vuole, lo scriva."
Proseguiamo il racconto, grazie agli scritti di Tertulliano
Pieni di tristezza per la sorte di Felicita, che era nell'ottavo mese di gravidanza, s'accordarono di Innalzare tutti insieme preghiere a Dio per lei. E mentre pregavano, improvvisamente partorì una creatura viva. Ed uno dei guardiani le disse: Che cosa farai quando sarai nell'anfiteatro se non puoi sopportare ora questi dolori?. Felicita rispose: Qui soffro io, là invece il Signore soffrirà per me.
Quando dunque giunse il natale di Cesare, si ebbe un grande concorso di popolo all'anfiteatro per vederli. Il proconsole si fece avanti e comandò che essi fossero condotti nell'anfiteatro.
E, mentre essi s'avanzavano, anche Felicita li seguiva: dal sangue della carne essa era condotta al sangue della salvezza, dall'ostetrica alla spada; e, dopo i lavaggi del parto, meritò di essere lavata di nuovo nell'effusione di un bagno di sangue.
Fra i clamori della folla vennero posti nel mezzo dell'anfiteatro, nudi, le mani legate dietro il tergo; rilasciate fiere diverse, Satiro e Perpetua vennero divorati dai leoni.
Saturnino invece, sottratto agli orsi, fu ucciso di spada; Revocato e Felicita ebbero dai leopardi il compimento del glorioso combattimento.
Di questi illustri e beatissimi Martiri che, imperando Valeriano e Gallieno, subirono il martirio in Africa, nella città di Tuburbio, il giorno 7 di marzo, sotto il proconsole Minucio, leggete dunque gli atti, invocandone fedelmente la memoria, nella chiesa - o santissimi fratelli - ad edificazione comune, pregando la divina misericordia che, per le orazioni loro e di tutti i Santi, si prenda pietà di noi, si degni di farci loro compagni, a gloria e lode del suo nome, benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
(Tratto da: Apologia del Cristianesimo - Tertulliano)
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