IL DESIDERIO DI INFINITO, L'UOMO E DIO

Un antico mito greco narra di Eos, l’Aurora “dalle dita di rosa”, che, innamorata perdutamente del bellissimo eroe Titone lo rapisce e supplica Zeus di concedergli il dono proibito dell’ immortalità. La preghiera viene esaudita, Titone ottiene di vivere in eterno come un dio, ma un madornale errore di Aurora lo condanna ad un misero destino: essendosi l’amante dimenticata di chiedere per lui anche una giovinezza senza fine, l’eroe si trova imprigionato in una condizione di progressivo declino fisico e perpetua vecchiaia, che fa sfiorire in lui ogni bellezza e vigore.

Spezzare i vincoli del tempo, dello spazio e della contingenza perché l’amato possa aver accesso ad una dimensione inesorabilmente preclusa ai mortali è un gesto eroico e ardito, espressione di un profondo anelito a sconfiggere la naturale caducità umana. La conclusione? Tragica. E’ quello che accade anche ad Orfeo, l’ispirato cantore che osa l’inosabile avventurandosi nell’Ade per riportare alla luce l’ombra della giovane moglie morta. Stesso amore folle, stesso tentativo frustrato di trionfare sulle leggi del Fato e della natura.

Il mito nasce con l’uomo ed è la quintessenza dell’umano; se non cessa mai di incantare con il suo fascino intere generazioni è perché in esso emergono, vivide e tangibili, quelle che sono le passioni, le angosce, le aspirazioni più vere e spontanee del nostro essere. Lo slancio a superare le barriere della morte, ad esempio, rappresenta la più alta e profonda espressione della natura dell’uomo di tutti i tempi, dai primordi della civiltà fino ai giorni nostri. E’ in questa innata tensione all’Infinito, all’Eterno che si cela il senso ultimo del destino umano, il fine supremo di noi, fragili creature mortali che popolano un macrocosmo dove tutto passa, tutto scorre, tutto è limitato, precario, caduco.


L’uomo è per natura soggetto ad una lacerante contraddizione: è essere finito, ma ambisce a tutto ciò che non ha confini. Fin dalle origini ha lottato per superare se stesso e vincere ogni sua debolezza, ha solcato i mari ed esplorato gli spazi celesti per conoscere, apprendere, accrescere la sua forza e la sua potenza, ma senza approdare mai ad alcuna conquista esaustiva: la sua ricerca è illimitata, il suo desiderio resta inappagato. Più ci spingiamo oltre, più la meta si allontana; più abbiamo, più sperimentiamo il vuoto, la mancanza, la privazione. Idolatriamo il mito della scienza e della tecnica, nutriti di un positivistico ottimismo nei confronti del progresso, ci illudiamo di raggiungere vertici supremi di grandezza e potere grazie alle acquisizioni scientifiche, mediche, tecnologiche; eppure resta sempre qualcosa di inarrivabile, insondabile, inesplorato. L’ansia di infinito è il motore del nostro agire, la più segreta esigenza dello spirito umano, impossibile da sopprimere, impossibile da mettere a tacere a lungo. Spesso, troppo spesso, travolti in uno stile di vita all’insegna dell’ossessione per il guadagno ed il consumo, ingolositi dai beni materiali, ci rifiutiamo di prestarle ascolto, dimenticandoci di noi stessi e dell’immenso mistero che alberga in noi.

Eppure, il desiderio continua ad urgere nel profondo, racchiuso negli abissi del nostro cuore come un grido in attesa di esplodere: lo avvertiamo quando, di fronte alla sconvolgente bellezza di un’opera d’arte o alla maestà di un mare in tempesta, lo stupore ci assale, la vertigine ci coglie. Questo senso di desolante smarrimento, a cui i grandi filosofi diedero il nome di “sentimento del sublime”, cos’altro è se non un’incontenibile tensione ad essere partecipi dell’infinta potenza e perfezione della natura, dell’arte ,pur nella consapevolezza della nostra fragilità e finitudine? Penso al pastore errante dell’emblematico Canto notturno leopardiano, solo di fronte all’immensità del cosmo, abbacinato dalla “stanza smisurata e superba” del cielo, sperduto nel “profondo infinto sereno” : povero, incolto, incapace di cogliere il senso di una vita trascorsa in un perenne vagare, incapace di penetrare il mistero e la bellezza che lo circondano, interroga gli astri, rivolge ad una luna silenziosa e altera le disperate domande che si affacciano sul suo cuore sofferente. In lui si riflette l’uomo nella sua dimensione più autentica, l’uomo che freme di fronte ad una realtà immensamente più grande, nobile, alta, l’uomo che avverte in sé la sproporzione, la propria angosciante incompletezza e lo slancio a sanare il divario, a colmare l’abisso. Il pastore chiede affannosamente risposta alla luna, ad un corpo celeste, dunque ad un’entità eterna, immortale ed immutabile, che conosce ogni cosa, in grado offrire certezze che possano placare l’inquietudine innata che tormenta il suo cuore, quell’inspiegabile “tedio” che lo assale e lo logora.

E’ proprio in questo che consiste la vera grandezza dell’uomo: nell’ammissione della propria umiltà e piccolezza e nell’affidarsi a qualcosa di infinitamente più grande e superiore. Il pastore errante si affida agli astri, alle stelle, dalla notte dei tempi culla delle speranze di sacerdoti, aruspici , marinai e viandanti. Dopotutto, pensiamo al significato profondo della parola “desiderio”: il termine deriva dal latino “de- sideribus”, esprime dunque una lontananza dalle stelle, una dolorosa separazione da un mondo inattingibile, ultraterreno, sede di bellezza e perfezione assolute dove il nostro animo affamato possa essere saziato. Esprime un senso profondo di nostalgia. Forse il desiderio, il vero desiderio, non è nient’altro che questo: nostalgia. Nostalgia di una dimensione a cui siamo appartenuti e a cui bramiamo tornare, proprio come voleva farci intendere Platone con la sua dottrina dell’iperuranio, o mondo delle idee: esiste un regno al di là del cielo in cui dimorano gli archetipi perfetti e immutabili di tutte le realtà esistenti in natura, in cui risiedono il Bello, il Bene, la Verità, con i quali l’anima umana vive a contatto prima di “cadere” nel corpo. Una volta imprigionata nel mondo sensibile, l’anima è condannata a sperimentare la sofferenza del distacco dalla sua “sede naturale”, la nostalgia, il fatidico desiderio.

Come può la nostalgia di Infinito acquietarsi? La più vera, completa e definitiva risposta a questo interrogativo universale può essere offerta soltanto dalla Rivelazione Cristiana Cattolica: Gesù Cristo è Dio divenuto carne, l’Infinito disceso nel finito, l’Eterno calatosi nel mortale, rappresenta la suprema risoluzione al dramma che da sempre affligge l’uomo, l’unica possibilità di riempire l’abisso di desiderio che alberga in noi con la promessa di immortalità, beatitudine, trionfo sulla morte. Attraverso l’Incarnazione in Gesù Cristo e il Sacrificio di Questi, Dio si è offerto di fare della nostra caducità immortalità, della nostra fragilità potenza, della nostra finitudine infinità.

Come dice S. Gregorio Nanziazeno nei suoi Discorsi: "Io ho ricevuto l’immagine di Dio, ma non l’ho saputa conservare intatta. Allora Egli assume la mia condizione umana per salvare me fatto a sua immagine, per dare a me mortale la sua immortalità…"

(Fatima Teli)

1 commento:

  1. Rileggere questo bel contributo alla luce dell’odierno Vangelo dell’Epifania ha un gusto particolare. Il pastore leopardiano cercava nel cielo e nelle stelle risposte al suo tedio logorante, ma – pervaso dal pessimismo storico e lontano da Dio – ne rimaneva deluso. I Magi cercarono un segno nel cielo, si affidarono al mistero delle stelle e la loro fede, dopo un lungo viaggio, fece trovare loro la Salvezza. Un bell’insegnamento per noi Cristiani!

    RispondiElimina